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LA MORMORAZIONE

MI309 [03-06-1970]

3 giugno 1970

MI309,1 [03-06-1970]

1 Sia lodato Gesù Cristo!
Continuiamo con l'«Opera omnia beati patris Matthei» . «Come Dio mi vuole». Così scriveva il beato Matteo da Grossa ; dato che sta entrando, ho sottolineato le parole. «L'essere in sintonia con Dio non riguarda soltanto ciò che dobbiamo fare, ma anche il come dobbiamo comportarci nella nostra vita per essere religiosi integrali. 1) Nel mio giudicare il prossimo, la Chiesa, gli avvenimenti, dimostro una mentalità umanamente matura (doti umane) ed evangelicamente pura, seria, integrale? Dimostro cioè una mentalità aperta ai valori umani, ma illuminata dai valori eterni?». Rileggiamo: «Nel mio giudicare il prossimo, la Chiesa, gli avvenimenti...». Non vi sembra che tante volte noi uomini - non intendo quelli della Casa dell'Immacolata, intendo dire noi tutti come uomini - siamo portati a giudicare con una certa facilità i nostri fratelli e, se ci viene fatta un'osservazione perché stiamo mormorando, diciamo: «Ma è vero... è vero!»? Una volta ci insegnavano che esistono la mormorazione e la calunnia. La mormorazione consiste nel rivelare un difetto occulto di una persona o anche nel rivelare un difetto noto ad altri che non lo conoscono quando non c'è bisogno. Calunnia è, invece, dire una cosa che non è vera, dire, per esempio, che il nostro caro Giuseppe nell'osteria, nella trattoria, ieri sera si è ubriacato, mentre non è vero: che si sia ubriacato di stanchezza impegnandosi nello studio potrebbe essere vero, ma non certo per aver bevuto vino. Mi pare che la mormorazione sia una malattia nostra di cristiani, una malattia che mi ha fatto impressione fin da giovane, come vi ho fatto notare altre volte. Si può dire che proprio agli inizi dell'Istituto ho sentito una reazione particolare a questa facilità che noi cristiani - dico noi, non voi, non gli altri: noi, noi, e mi prendo dentro anch'io - abbiamo di parlar male del prossimo, dimenticandoci che manchiamo proprio contro la carità, contro l'essenza del cristianesimo. Questa facilità di parlare male del proprio parroco dicendo che è uno straccione e che non vale niente, di parlare male del proprio cappellano dicendo che ha un determinato difetto, parlare male di questa o di quell’altra persona non è carità, amici miei, non è carità! È diverso prendere a braccetto, supponiamo, un domani, don Guido e parlare amichevolmente. Supponiamo che don Girolamo prenda a braccetto don Guido e gli dica: «Senti, don Guido: mi sembra che sia conveniente deporre don Ottorino dal suo incarico perché non è più in grado di svolgerlo». Questa è carità, quando un fratello parla con un fratello per sentire il suo parere. Vedo che Daniele fa sotto sotto un sorrisetto. Supponiamo allora che io mi accorga che Daniele abbia commesso una mezza marachella; prendo a braccetto un suo amico, supponiamo don Antonio Bottegal, e gli dico: «Senti, ti accorgi tu che Daniele qualche volta commette qualche marachella? Io mi sono accorto che stanotte è andato a rubare le ciliegie. Tu te ne sei mai accorto?». E lui mi risponda: «Eh, sì, l'ho visto anch'io qualche volta!» . Questa è carità. Noi ne parliamo unicamente per cercare di correggerlo, in modo che, oltre alle ciliegie, non vada poi a rubare anche i ciliegi. Chiaro? Però questo lo si fa unicamente per la ricerca della perfezione del fratello, per aiutare il fratello, mentre l’errore è buttare una frase solo per mormorare o per criticare.

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2. Vi ricordate che fin dai primi tempi dell'Istituto - parlo ai più anziani che sono qui presenti - io sono stato molto duro a questo proposito, e qualcuno è partito immediatamente, su due piedi, per queste mancanze. Per conto mio, infatti, in questo consiste l'essenza della nostra Famiglia religiosa. Per cui non è ammessa questa facilità di mormorare e di criticare.
Nel nostro testo si parla della Chiesa, si parla degli avvenimenti, si parla del prossimo. Porto un esempio. Si dice una parola, supponiamo, qui in casa, e dopo don Aldo fa una visita in America e trova che questa parola viene commentata in quelle Comunità: «Che cosa dicono nella Casa dell'Immacolata? Guardi che cosa hanno scritto». Qualcuno evidentemente ha scritto in missione: «È stato detto questo...». Naturalmente quella cosa è stata detta, ma con lo scopo di invitarvi alla prudenza, e qualcuno subito l’ha scritta. Non è mormorare, non è criticare, non è far del male questo atteggiamento? Poniamo anche l'ipotesi che io faccia un peccato contro la carità e vi dica, per esempio, che don Pietro Martinello si ubriaca ogni giorno: è un'ipotesi, ma sarebbe carità da parte vostra scrivere a don Pietro: «Don Ottorino ha detto che tu ti ubriachi ogni giorno...» e comunicare frasi del genere? Guardate che manchiamo, manchiamo, cioè ci prestiamo a fare il gioco del demonio. Voglio sottolineare che nessuno di noi, cominciando da me, cominciando dai più vecchi - e qui sarebbe il caso di ricordare l’episodio dell’adultera, quando tutti sono scappati via cominciando dai più vecchi - nessuno di noi è esente da questo gioco diabolico. Il demonio si serve di noi per rompere la carità, e proprio in questo modo: o criticando o dicendo male dell'altro. Quante volte, per esempio, si sente anche fra voi qualche frase contro i professori, contro la scuola, contro qualcuno: c'è sempre qualcosa! Ma certo che c'è qualcosa da dire, su tutti c'è qualcosa da dire! Però non è lecito abituarsi a dirla come mormorazione. Non mi meraviglierei, per esempio, che a un dato momento uno venisse da me o mi dicesse: «Ci troviamo un po' a disagio a scuola con quel professore per questo e questo motivo. Creda, è un po' pesante». Sarebbe corretto anche che venissero in due o tre in commissione, ma non che, per esempio, mentre si sta parlando, si senta dire: «Oh, quel professore non fa che far dormire! Ohh... ohh...». Questo, mi pare, non è carità, non è carità! Ripeto che non mi meraviglierei se venisse un domani una commissione a parlarmi. Supponiamo, ad esempio, che don Antonio Bottegal prenda in disparte Daniele e gli dica: «Senti, Daniele, non sarebbe forse il caso che andassimo da don Ottorino a chiedergli se potesse far cambiare o, almeno, dicesse una parola al professor Cocco per questo, questo e questo motivo?”. “Mi pare di sì”, risponde Daniele. “Vuoi che sentiamo il parere di qualcun altro?». E allora si prende in disparte un altro più vecchio, supponiamo Luigi De Franceschi , che è persona assennata, e gli si dice: «Senti, monsignore, che ne dici? Non sarebbe il caso di parlarne con don Ottorino?». «Io dico di sì». «E allora, bene! Chi va a dirlo a don Ottorino?». Quindi uno, il delegato o una commissione, viene a dirmi: «Guardi, don Ottorino...», e parliamo insieme. Questo è corretto. Dopo, magari, si avvicina mons. Sartori , si parla anche con mons. Cocco e si dice: «Senti, sta’ attento, io ho l'impressione... ho sentito i ragazzi che fanno questi commenti». Questo è costruire, questa è carità, non usare frasi di critica e di mormorazione. Sottolineo questo perché si sentono spesso frasi di questo genere o contro i professori o contro la scuola: «Quello fa dormire! Questo qua... quello là...». Buttare queste frasi non è carità, figlioli, non è carità! «Eh, ma è la verità!», potrebbe dire qualcuno. Sì, è vero, ma è sempre mormorazione. Se non fosse la verità, sarebbe calunnia. State attenti perché abbiamo questa facilità, e se noi non ci impegniamo ad eliminare questo difetto dobbiamo togliere la parola famosa che abbiamo scritto all’entrata: «Charitas». .

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3. Ricordate che vi ho commentato che quando è morto il papà di don Aldo gli operai e la gente dicevano: «Non lo abbiamo mai sentito una sola volta dir male di alcuno». È stato il più bell'elogio funebre: «Non abbiamo mai sentito una sola volta quella bocca dir male di un altro, mai!». Se quando muore, supponiamo, il nostro caro Fabris, si potesse dire: «Non ha mai detto male di alcuno. Eppure sapeva parlare!». Del papà di don Aldo si poteva dire: «Beh, poveretto, parlava così poco!»; non parlava neppure quando andava a trovare la fidanzata perché stavano tutt'e due in silenzio, un'ora in silenzio... e allora si capisce. Ma Fabris è tutt'altra cosa, vero, tutt'altra cosa, per cui sarebbe bello poter dire il giorno della sua morte: «Non ha mai detto male di nessuno, mai detto male di nessuno, eppure di parole ne ha dette tante nella sua vita, però non ha mai detto male di nessuno».
Sulla nostra tomba bisognerebbe che potessero scrivere questo elogio: «Non ha mai parlato male di alcuno». Ma non è sufficiente non parlar male, bisogna parlare anche bene, perché qualche volta il silenzio è negativo. «E tu, dici niente?». «Eh, io taccio!». Qualche volta tacere potrebbe essere peggiore che parlare. È preferibile dire che uno ha rubato i fichi, piuttosto che dire: «Io taccio», se questo può far supporre che quel tale abbia rubato anche l'albero. Chiaro? Non basta soltanto una paroletta così.

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4. Che bello, qualche volta, quando uno, sentendo parlar male di una persona, immediatamente, invece di rincarare la dose, dice: «Sì, beh, insomma, è vero, ma, in fin dei conti bisogna che teniamo presente, anche, tutto quello che fa quell'uomo, tutto quello che fa quella persona»! Cioè bisogna mettere in evidenza la parte positiva.
Supponiamo che uno incominci a dire male ancora di Fabris, ma poi aggiungi: «Sì, va bene, però... però... eh, bisogna che ci ricordiamo delle sue ottime qualità». Adesso sarebbe un pochino difficile tirar fuori la parte positiva, ma ad ogni modo facciamo conto che ci sia. Mi pare che questa sarebbe carità. Tu senti parlar male, supponiamo, di un sacerdote e sai che quel sacerdote ha fatto un atto di carità, ha una data virtù: mettila in evidenza, in modo che si veda l'uomo nella sua globalità. Questa è carità. Tu avresti piacere che facessero così nei tuoi riguardi. Se tu sei calunniato oppure se tu hai commesso una mancanza e in giro, nel mondo, ne parlano, tu avresti piacere che gli altri sapessero anche il resto, cioè la parte positiva, insomma che vedessero nel giusto equilibrio non solo la scorza, ma che dentro c'è anche il resto. Mi pare che dobbiamo avere questa carità verso il prossimo. Mi fermo un pochino su questo punto perché voi sapete come, oggi specialmente, si sente un po' dir male di tutto e di tutti. Ho portato qualche esempio di casa e dei confratelli, ma come si sta male sentir parlar male, per esempio, della Chiesa, del Papa! Scusate, forse ieri era diverso? Non c'erano uomini anche ieri vicino al Papa, uomini che commettevano i loro peccati, che sbagliavano, che facevano errori? Dove c'è un uomo, c'è il peccato, ci sono sbagli, c'è debolezza. Perché allora dir male della propria famiglia? Se in casa tu hai il papà che si ubriaca, perché vai a dire in giro che si ubriaca? Perché, se c'è la mamma che si arrabbia, vai a dire in giro che si arrabbia? Una volta ci insegnavano che i panni sporchi bisogna lavarli in casa propria, che i propri panni bisogna lavarseli in casa. E allora perché dobbiamo, noi figli della Chiesa, noi membra del Corpo Mistico, parlar male della nostra famiglia, della vera famiglia? Se c'è qualcuno che sbaglia, se c'è qualcuno che non fa bene il proprio dovere, la carità cristiana ci dovrebbe fare stringere un pochino il cuore, dovrebbe spingerci a versare tanto e tanto olio su queste piaghe. Non vi pare?

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5. Ultimamente ho sentito don Giuseppe Molon dirmi di un cappellano: «Domenica scorsa, in chiesa, ha parlato in lungo e in largo contro i conventi dei secoli scorsi, sostenendo che non erano che la rovina delle anime, che in essi le vocazioni erano coartate, e tante altre deficienze». Fosse anche vero, che cosa guadagna un sacerdote in una predica in chiesa, in una chiesa pubblica, di domenica, a gridare contro i conventi, contro la vita religiosa passata, dicendo che essa non era secondo i canoni attuali? Cento o duecento anni or sono non ci eravamo né io né lui per poter giudicare. Ma fosse anche vero, fosse stato anche vero, noi siamo per costruire o per distruggere? Avessero anche sbagliato i nostri fratelli nel passato, però ci hanno trasmesso un patrimonio di cristianesimo. ringraziamo i nostri vecchi per quello che ci hanno dato! Perché vogliamo criticare, perché dobbiamo proprio scagliarci contro? Se domani si venisse a sapere che il nostro vecchio parroco e il nostro vecchio cappellano avessero commesso anche dei peccati, perché dobbiamo metterli al bando dicendo: «Eh, i preti di ieri! Eh, i preti dell'altro giorno! Eh, la Chiesa di ieri! Eh, i conventi di ieri!».
Questa è la malattia tremenda che sta circolando anche in mezzo ai preti. Proprio il sacerdote, che dovrebbe coltivare la carità, seminare lo spirito cristiano, semina invece maldicenze e corre insieme con il demonio. Quando voi sentite un cristiano o un prete che non ha questa carità potete dire subito: «Costui parla male, costui ha già cambiato tessera, ha già messo la crocetta, ha già votato per il demonio». Giorni fa, alla televisione, il capo dei fascisti, l’onorevole Almirante, si è presentato a “Tribuna Politica” per fare la sua propaganda. Ad un certo momento si è presentato uno che ha detto: «Ah, son venuto qui a fare la mia confessione. Ho sbagliato, ho sbagliato, ho sbagliato! Nel '948 ho votato per la Democrazia Cristiana. Dopo cinque anni ho detto: “Ho sbagliato!”. Dopo altri cinque anni ho detto: “Basta!”. Invece mi son lasciato imbrogliare da un uomo ed ho sbagliato un'altra volta. Allora ho detto di nuovo: “Basta!”. Ma stavolta lo dico pubblicamente: “Ho sbagliato; ma ora non voglio sbagliare più. Voto per...”». Ecco, state attenti, state attenti che non ci capiti proprio così, vero, che non ci capiti proprio così! Condanniamo con le parole, sputiamo nel piatto dove abbiamo mangiato fino a ieri. E potrebbe capitare così anche a noi. Dopo essere nati nel cristianesimo, essere stati, si può dire, coltivati dal cuore materno della Chiesa, essere stati allevati con il sangue di Cristo, sputiamo contro il Cristo e contro la Chiesa. Perché? Perché ci lasciamo prendere dal demonio che porta discordia e disunione.

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6. La nostra Famiglia religiosa deve avere veramente il cuore grande. Abbiamo l'esempio meraviglioso di don Pietro all'Isolotto, che ha saputo compatire e in questo modo ha vinto. Io dico «lui», per non dire «loro tre», perché sono un cuor solo e un'anima sola, e stanno vincendo proprio in questo modo. Lui, che è il più vecchio, tiene frenati anche i più giovani esortandoli a compatire, a fingere di non accorgersi delle provocazioni, a non rispondere con le loro armi: gli altri calunniano e i nostri tacciono, gli altri offendono e i nostri offrono al Signore. In questo modo stanno vincendo ogni ostilità. Questo è cristianesimo, questo è cristianesimo!
Al momento opportuno si potrà dire anche una parola, ma misurata, pesata, dopo averla studiata davanti al Santissimo, ma non con quella reazione, con quello spirito che è satanico. Oggi il mondo è veramente ubriaco di queste cose: mormorazioni, critiche, maldicenze. Non ci mancavano che le questioni politiche per aumentare le maldicenze dell'uno contro l'altro, per cui l'uno osserva la camicia e l'altro le mutande: bum, bum, bum, bum! Vedete come si calunniano gli uni gli altri. Questo non è cristianesimo, fratelli miei! Dico male, lei, don Fabris? Rileggo perciò il pensiero: «Nel mio giudicare il prossimo...», e qui non soltanto esternamente, nelle parole, ma anche dentro di me, dentro di me. Perciò andiamo piano prima di giudicare male il prossimo. Prima di dire che uno ruba le ciliegie, esaminiamo quanta fame ha. Non è vero, Adriano? «Non sa quanta fame avevo», ha detto quel tale. «Dicono che sono ladro, ma non sanno quanta fame avevo». Pensiamo quindi quanta fame potrebbe avere quel tale. «Nel mio giudicare il prossimo, la Chiesa, gli avvenimenti...». Anche gli avvenimenti stessi! Vale la pena giudicare di meno, come ha detto il Signore.

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7. «... dimostro una mentalità umanamente matura?».
Qualche giorno fa, parlando di una persona che non è qui, si diceva: «Forse c'è in lei una immaturità». Amici miei, permettete che ricorra a un paragone, anche se ora bisognerebbe chiudere il registratore, ma pazienza! Voi siete cresciuti in questi tempi come i polli in gabbia: un po' forzati e senza la capacità di raspare. Infatti non andate più scalzi. Una volta i ragazzi andavano scalzi e razzolavano per i cortili senza scarpe o tutt'al più con gli zoccoli di legno. Adesso usano le scarpe, non razzolano più, e sono cresciuti in fretta. Perciò tu vedi Marco che attrae tutti con il suo spirito barzellettistico, con il suo spirito di apertura, con il suo modo di fare simpatico e spettacolare. Voi ci superate tutti sotto questo aspetto. Se adesso ci trovassimo insieme, un gruppo di voi a destra e un gruppo di noi a sinistra, tutti della stessa età, noi faremmo la figura che una volta facevamo noi di campagna dinanzi a quelli di città. Quando sono entrato in seminario, c'erano quelli della città e quelli della campagna: tra gli uni e gli altri c’era una distanza come quella tra il campanile e la gradinata della chiesa. Fra quelli della città ricordo Giulio Fox e qualche altro; era cittadino anche il prof. Tovo, che aveva finito la terza media, perché veniva dalla città di Valdagno. Non è vero, Vinicio? Noi eravamo poveri ragazzi di campagna. Non parliamo, poi, di quelli che scendevano da Durlo, da quelle parti: apriti cielo, perché quelli erano addirittura dell'altro secolo, c'era una differenza enorme. Adesso la differenza tra noi e voi sarebbe ancora più grande. Io chiudo gli occhi e vedo che eravamo tutti poco svegli, mentre voi siete molto più aperti. Su questo siamo d'accordo, lo riconosciamo, e accettiamo questa realtà. Però, ricordate che siete cresciuti un po' in fretta, come i polli che sono messi in gabbia: bisognerebbe che razzolaste un poco prima di essere messi in pentola, perché altrimenti non avrete il sapore proprio del pollo ruspante, del pollo di cortile. E questo razzolare significa fermarsi e dubitare di voi stessi, chiedersi qualche volta: «Non sono forse un po’ troppo sicuro?». È necessario un controllo con il padre spirituale, con i superiori, con qualche amico, con qualche persona un po' più anziana. È bene dubitare un pochino della propria grandezza e chiedersi: «Forse non sono grande come penso, ma sono gonfiato un pochino?», come i vitelloni famosi, le bistecche famose che si mettono sulla graticola e non ne resta niente: spremi, spremi e resta niente. Guardate che il mondo vi metterà sulla graticola, ed è facile che non ne resti niente.

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8. Ringraziate il Signore per questo sviluppo di intelligenza, per le doti di apertura, per le nozioni che adesso facilmente voi apprendete; ringraziate il Signore: è un dono di Dio! Però state attenti perché è facile mancare di maturità, e di questo non vi faccio una colpa. Vi dico soltanto: completate questi doni di Dio cercando di maturarvi perché, senza volerlo, quello che avete acquistato da una parte l'avete un pochino perso dall'altra. Siamo sinceri! Dico male, signor Vinicio, lei che ha fatto la resistenza? Voi avete guadagnato da una parte... Se avete mille lire e comprate mille lire di castagne secche, non potete comperare anche mille lire di vino: o una cosa o l'altra. Cioè, in altre parole, e guardate che questa è la verità, voi, sotto un certo aspetto, siete più avanti di noi di dieci anni, ma per maturità siete indietro di due o tre anni rispetto all'età nostra di una volta.
Non scoraggiatevi per questo, non impiccatevi come Giuda, però aiutatevi a maturare. E che cosa dovete fare? Non giudicate troppo, fermatevi prima di dare dei giudizi. Quando voi dite: «Due più due fa quattro», adagio, aspettate! Chiedetevi: «E se per caso...?». «No, no: sono sicuro!». Dubitate. Fate come fanno nei negozi quando si va a fare un acquisto: uno fa il conto e dopo lo passa a un altro per la verifica. Vi accorgerete che su dieci volte, forse una volta siete stati troppo sicuri di voi e avete sbagliato, e quello sbaglio avrebbe potuto farvi perdere il prestigio anche umano. Non so se sbaglio. Lei, don Zeno, che cosa dice di questo? Non siete d'accordo? Tu, don Guido? Tu, don Girolamo, che vai per le più alte sfere, sei d'accordo o no? Tenete presente che in questo non accuso nessuno; anzi vi dico che, se si trattasse di scegliere fra uno di trent'anni fa e uno di adesso, sceglierei senz’altro il giovane di adesso. Siamo d'accordo: questo è un dono di Dio e voi avete avuto dei doni particolari. Però, attenti! Cercate di maturarvi perché altrimenti si formano uomini squilibrati, uomini troppo sicuri di se stessi, e allora non c'è nulla di peggio! È preferibile una macchina che corra a centocinquanta chilometri all'ora o una che va a dieci? Se ha un volante buono, la prima; ma se non ha un volante buono, è preferibile quella dei dieci chilometri all'ora. È un vantaggio grande avere una macchina che corre veloce come voi, però è necessario che ci siano volante e freni a posto, perché altrimenti è meglio andar con la carriola e si va più sicuri. Vale poco avere una buonissima macchina, se non ha volante e freni a posto: sul più bello che è lanciata, capita un piccolo incidente e bisogna attaccare la marcia... funebre. Scusate se insisto su questo: ciò che vi porta spesso a giudicare e a criticare è proprio l’immaturità, è lo sviluppo fatto un po' in fretta. Avete gli elementi per giudicare, ma ve ne sfugge forse qualcuno, che può essere, per esempio, quello della pratica, può essere quello dell'esperienza. Ad esempio, si potrebbe parlare male di quel pover'uomo che tiene la mano rattrappita: «Guarda: guida con una mano sola!», perché si vede uno che va in bicicletta e tiene il manubrio soltanto con una mano; e non si sa che, magari, sotto la manica, c'è un pezzo di gesso, ha il braccio ingessato. «Ah, a questo proprio non pensavo!». Invece l'esperienza suggerisce che qualche volta si può avere un braccio in quelle condizioni, un braccio ingessato. L'esperienza fa vedere molte cose, fa toccare con mano molte situazioni.

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9. Il punto di arrivo deve essere questo: dobbiamo volerci bene, non dobbiamo criticare, dobbiamo compatire, comprendere, amare il prossimo, non dimostrare di essere sopra una colonna per giudicare tutti quelli che passano. Dobbiamo aiutare quelli che passano, non giudicarli; dobbiamo dare una mano a chi cade, non ridere perché uno cade; dobbiamo dare da bere a uno che ha sete, non ridere perché ha sete. Mi pare che questo dovrebbe essere lo spirito del cristiano e lo spirito della nostra Famiglia religiosa.
E siccome questa è una conquista, guardate che allora ci vuole tanta virtù, tanta buona volontà per arrivarci. Non basta dire: «Adesso io faccio il proposito», ed ho già la carità. Guardate che è una conquista! Come, ad esempio, per riuscire a suonare l'armonio o il piano occorre esercitarsi per ore e ore, provare e riprovare, e dopo si sbaglia ancora, così è anche per l’acquisto della carità. Non prendete alla leggera questo impegno, non crediate che sia facile fare questo. Per esempio, talvolta qualche giovane pretenderebbe, perché ha promesso in un corso di esercizi spirituali di farsi santo, di esserlo già. Ricordatevi, amici miei, che la direzione delle anime è l’arte delle arti, ma il farsi santi è l'arte delle arti delle arti: è ancora più difficile! Immaginiamo che a un dato momento uno di voi, supponiamo Tarcisio , dica: «Adesso mi metto a imparare il tedesco». Allora lo si vede appiccicato alla radio e impegnato con la grammatica per imparare quattro parole di tedesco: «Spindeutsch, spindeutsch...». Non so che cosa ne esce, ma per tirar fuori quattro parolette di tedesco deve masticare molto. Il nostro Giuseppe, per esempio, per imparare che i rosai vanno piantati con le radici all'ingiù anziché all'insù, quanto ha studiato; non ne avete neanche l'idea, e dopo si è anche sbagliato: un po' di rosai sono morti. Non è vero, Giuseppe? Li aveva lasciati abbandonati sotto il portico per otto giorni. Pazienza! Ogni cosa, sia in agricoltura come in ogni altro campo, esige sacrificio.

MI309,10 [03-06-1970]

10. Pretendete voi di essere padroni di voi stessi, di dominare voi stessi senza fatica? Ho l’impressione che qualche volta noi crediamo che la santità sia una cosa facile, che basti dire: «Mi faccio santo» e si sia già santi. Invece è la cosa più dura! «Vita da cani», diceva mons. Sebben, «Vita da cani, caro mio, vita da cani». Questo significa che la vita di santità costa fatica più che a lavorare con la carriola, più che andare a zappare la terra in luglio. Mettiamo già in preventivo che, per farsi santi, bisogna lottare contro l'io e la natura, e bisogna dominare.
Dominare un coniglio è facile, ma dominare un toro, particolarmente grosso, o un cavallo di razza, costa più fatica, come pure dominare un caprone o una grossa capra... Come li chiamate voi, Zeno? Il cavallo di mio nonno si dominava da solo: montavi qui a Vicenza e lui si fermava da solo a ogni osteria. Mio nonno si addormentava e il cavallo, quand'era a Ospedaletto, si fermava. «Ah! Siamo arrivati?». Il nonno beveva un quartino e partiva un'altra volta. A Lisiera un altro goccetto, e arrivava a Quinto. È facile dominare un cavallo del genere perché aveva le sue stazioni fisse e lì si fermava, e allora mio nonno si svegliava: «Ah!», diceva e scendeva. Qualche volta, magari, si svegliava dopo un po' o era l'oste che andava a svegliare il vecchio che era sulla carretta: «Ehi, signor Bortolo!». «Ahh! Ahh...! Sono già qui?». Allora andava a bere il quartino. Dominare cavalli simili è facile, ma dominare un cavallo da corsa non è altrettanto facile. Zeno potrebbe parlare, perché ha esperienza di cavalli «puro sangue» che saltano e ballano. Ricordo che l'arciprete del mio paese ne aveva uno, perché il nipote aveva la passione dei cavalli. Quante volte è andato a finire dentro il fosso con la timonella ribaltandosi e spaccando tutto. Cose che capitano con gente di sangue! Voi siete cavalli di sangue, e anche troppo qualche volta, anche troppo! E per dominare i cavalli di sangue, perché non vadano a finire nel fosso, ci vuole lo scudiscio. Nel passato i santi adoperavano i cilici, adoperavano i flagelli. Francesco d'Assisi si lanciò in mezzo ai rovi per dominare la sua natura irruenta. Se nel passato facevano digiuni e si flagellavano, era perché volevano vincere la propria natura , perché volevano vincere la carne, vincere l'io, vincere le passioni. Se adesso non si adoperano più questi mezzi, resta però che in un modo o nell'altro bisogna far fatica. Scusate la brutta parola: bisogna far fatica, per vincere noi stessi bisogna far fatica. E allora, ecco la conclusione. La prima fatica che io vi inviterei a fare è questa. C’è da far fatica per essere puri, c’è da far fatica per essere umili, ma credo che sia anche tanto faticoso qualche volta non giudicare male il prossimo, tanto faticoso, specialmente vedendo certe cose così chiare, così lampanti, e dire: «Io sono peggiore di lui». Eppure bisogna fare questa fatica: metterci dinanzi al Signore e risentire la voce di Gesù che dice: “Non giudicate”.