Don Ottorino riprende le meditazioni sulla 1ª lettera ai Tessalonicesi che aveva iniziato il 1 dicembre 1966 e aveva protratto fino al 17 maggio 1967. Anche per questa meditazione si serve del commento di HEINZ SCHÜRMANN, Prima lettera ai Tessalonicesi, Città Nuova editrice Roma 1965. Le citazioni, prese dalle pagg. 96-98, vengono sempre riportate in corsivo senza ulteriori richiami.
Le meditazioni sulla figura di don Edoardo Poppe erano iniziate il 23 maggio 1967 e si erano potratte fino al 16 giugno dello stesso anno, con un totale di nove meditazioni.
Nell’esempio don Ottorino nomina Lorenzo Meneguzzo, che era appena entrato nella Casa dell’Immacolata dalla famiglia dopo aver conseguito il diploma di perito agrario, e che era un giovanottone robusto, e Raffaele Testolin, che invece aveva una costituzione più gracile.
MI192,1 [21-06-1967]
1 Riprendiamo la nostra cara lettera paolina ai Tessalonicesi. All’inizio dell’anno pensavamo di commentare due o tre lettere, e invece non abbiamo ancora completato la prima. Abbiamo interrotto per fare alcune meditazioni su don Poppe , e credo che sia stata una cosa piacevole, per voi e anche per me. Riprendiamo la lettura del testo e del commento della 1ª lettera ai Tessalonicesi, verso la conclusione della stessa. “Nei versetti seguenti Paolo presenta un esame di coscienza alla comunità. Si deve porre attenzione a cinque cose, se si vuole che la vita comunitaria si conservi sana. Ma l’anima di tutto sta nell’amore fraterno: è esso che in tutti i problemi fa trovare il vero ordine delle cose”. Al primo punto parla della concordia piena d’amore, e siamo al capitolo 5,12-13. “Vi preghiamo poi, o fratelli, di avere riguardo per quelli che tra voi si affaticano e a voi presiedono nel Signore e vi ammoniscono; abbiateli in somma stima e amore a motivo dell’opera loro. Vivete in pace tra voi”. Stamattina ci fermeremo in modo particolare su questo versicolo, che mi permetto di premettere perché è una cosa importantissima. Più avanti Paolo parla sul dovere di avere pazienza con i deboli e più avanti ancora di “vincere con la carità il male”. C’è uno che fa del male? Bisogna soffocarlo con la bontà. Uno ti dà pugni? Tu devi soffocarlo con la tua bontà. Presto incominceranno le vacanze e nelle vacanze è logico che, cambiando attività, cambi un po’ tutto. Finché uno è in studio o lavora per conto proprio è facile andare d’accordo. Uno può essere vicino di banco di un altro, ma non si pestano i piedi perché sono in silenzio ed è sufficiente che uno non studi a voce alta: lui studia e quell’altro studia, tutt’al più poi in ricreazione possono sorgere dei problemi. Ma quando si va, per esempio, al lavoro in laboratorio e c’è da portare un pannello, e c’è Renzo che porta tre quintali e Raffaele, poverino, porta un quintale solo, Renzo non può pretendere di prendere in mano un pannello che pesa sei quintali e poiché lui porta tre quintali, anche Raffaele dovrebbe portarne tre.COMUNITÀ
confratelli
COMUNITÀ
unità
nella carità
COMUNITÀ
promozione fraterna
PAROLA DI DIO
CARITÀ
DOTI UMANE vacanze
Don Marcello Rossetto era all’epoca il superiore della Comunità di Crotone, ma si trovava a Vicenza per un breve periodo di riposo.
MI192,2 [21-06-1967]
2 Ci vuole tanta umiltà, e non volere che tutti camminino con il nostro passo, ma saper sopportare i deboli, cioè dire: “Questo non può fare più di dieci chilometri all’ora. Ringraziando il Signore io ho le gambe lunghe e posso fare anche trenta chilometri all’ora...”, e allora bisogna saper portare pazienza con chi ha le gambe che possono fare soltanto dieci chilometri all’ora. Questo non significa portare pazienza se questo tale invece di fare soltanto dieci chilometri ne fa cinque: allora bisogna aiutarlo, con la carità fraterna, con la correzione fraterna, e fargli fare i dieci chilometri all’ora, perché se quello può andare a dieci chilometri all’ora deve andare a dieci chilometri all’ora, ma non pretendere che lui vada a trenta chilometri all’ora. Perché è facile che succeda questo: tu puoi andare a trenta chilometri all’ora, pretendi che lui vada a trenta chilometri all’ora e tu, magari, minacci di andare a venticinque, mentre lui va a dieci e abbondanti: lui dinanzi al Signore prende dieci e tu prendi appena sette e mezzo o otto e, forse, anche un cinque qualche volta. Perciò ognuno deve dare tutto quello che può dare al Signore, e per conservare questa carità dovete avere un domani nella Comunità e nel lavoro apostolico gli atteggiamenti che ora vi chiedo nel lavoro durante l’estate. Ognuno deve dare tutto quello che può dare: nella preghiera, nell’unione con Dio e nel lavoro materiale; dobbiamo dare tutto quello che possiamo dare. Ecco le due cose che dobbiamo fare: - prima di tutto sapere dare noi per primi. - secondo, saper sopportare i deboli, coloro che non possono dare, cioè aiutare i deboli, dare una mano in modo che possano dare di più. È facile che uno veda l’altro camminare e lui non sia capace di camminare, e allora si ferma. No! Per aiutarlo bisogna che tu ti fermi e gli dica : “Senti: non pretendo che tu porti tre quintali se non sei capace di portare tre quintali, ma se puoi portane uno, devi portare almeno quello”. Chi è in testa lo dica con autorità e fraternità, ma bisogna che ognuno porti quello che può portare. Perché oggi lo fate portando il pannello, domani lo farete nel campo apostolico. Don Marcello , dico bugie? Mi pare di poter dire questo: ognuno deve dare quello che può dare. Anche San Paolo dice lo stesso a questo proposito.VIRTÙ
umiltà
VIRTÙ
pazienza
COMUNITÀ
correzione fraterna
CONSACRAZIONE offerta totale
CONSACRAZIONE generosità
Montepulgo era una piccola parrocchia collinare nei dintorni di Castelgomberto (VI): non c’era alcuna Comunità di San Gaetano a Montepulco, ma don Ottorino si serve dell’esempio per indicare una Comunità di poca importanza senza fare riferimenti concreti alla Congregazione.
MI192,3 [21-06-1967]
3 Intanto ci fermiamo al primo punto e cioè: “Concordia piena d’amore”. “Non ci può essere vita di comunità, senza che alcuni vi si dedichino in maniera speciale per regolarne il funzionamento e gli interessi”. Quante volte è stato detto che governare è servire! Una mamma è la prima in casa; ma che cosa vuol dire per lei essere la prima? “Mamma, mi occorrono le scarpe... Mamma, ho i pantaloni rotti... Mamma, ho fame!”. Che cos’è? La serva! È lei che comanda, è lei che deve dire: “Piccolo, devi venire a casa.... No, aspetta per mangiare, altrimenti bisogna buttare in pentola il riso dieci volte”. È lei che dice: “Aspettiamo per mangiare... Aspetta un momentino... Fa’ questo, fa’ quello!”, però, però... è a servizio, è a servizio. L’autorità, figlioli miei, è necessaria, ma deve essere vista con fede. Un domani in qualunque Comunità vi troviate, qualunque sia il superiore, sia uno che corre a trenta chilometri all’ora o a dieci chilometri all’ora, sia grasso o magro, lui ha il dovere di servire, ma noi abbiamo il dovere di collaborare. Non possiamo dire continuamente: “E adesso? E adesso? E adesso, che cosa devo fare?”. No! Questa non è l’obbedienza che vuole il Signore! L’obbedienza è una collaborazione attiva in modo che ognuno dia tutto se stesso nel lavoro apostolico, ma nell’ordine che è stabilito dal Signore e che è necessario, anche se non ci fosse la vita eterna. “Così, anche a Tessalonica c’erano di quelli che si affaticavano molto per gli altri: si prendevano cura di tutto, si occupavano in modo particolare della cura pastorale dei fratelli, ammonivano, richiamavano ed esortavano”. Mi dispiace che ci sia don Marcello presente: non vorrei che creda che diciamo questo per lui, ma lui è tanto buono e sa compatire queste cose. Prendiamo come esempio una Comunità, prendiamo la Comunità di Montepulgo. Capita questo: chi è alla testa della Comunità è logico che, lo dico senza offendervi, senta i problemi con un amore più grande di un altro. Supponiamo che sia io a capo di questa Comunità e prendiamo un caso materiale. Se c’è un debito da pagare dico: “Ragazzi, diciamo un’Ave Maria perché oggi ho da pagare una cambiale di cinque milioni”. Credo di non offendervi se dico che voi non sentite il peso che sento io, perché tocca a me andare a pagare i cinque milioni. Tutti abbiamo il debito di cinque milioni, il debito è di tutti, anche voi siete preoccupati: “E allora, sono arrivati o non sono arrivati i soldi?”, ma la tremarella nel cuore l’ha soltanto colui che deve pagarli.CONSACRAZIONE obbedienza
COMUNITÀ
superiore
COMUNITÀ
servizio reciproco
VIRTÙ
fede
DOTI UMANE collaborazione
APOSTOLO
NOVISSIMI eternità
Romani 12, 15: “Piangere con chi piange”.
Don Luigi Smiderle era sacerdote novello dal 18 marzo di quell’anno 1967 e sarebbe stato inviato proprio a Crotone con l'inizio del nuovo anno pastorale.
Don Guido Massignan, oltre che essere direttore della Casa dell’Immacolata e segretario generale della Congregazione, era anche il responsabile della scuola F. Rodolfi per allievi semiconvittori.
MI192,4 [21-06-1967]
4 Un domani, se uno deve andare a fare una predica o incontrare una persona, può condividere la preoccupazione: “Ragazzi, guardate che è una cosa importante, sapete...”; puoi invitare a “flere cum flentibus” ... ma colui a cui tocca piangere più di tutti è la mamma a cui è morto il figlio. Per cui se capita un piccolo incidente nella parrocchia, se capita una difficoltà, se capita una cosa... tutti lo sentono, ma quello che ha la responsabilità lo sente di più. Se c’è un esame da fare siamo in due preoccupati, ma il più preoccupato è colui che deve sostenere l’esame. Noi dobbiamo sentire il peso che ha il povero disgraziato che è il responsabile della Comunità e che deve sobbarcarsi il peso delle difficoltà. Senza offendere alcuno: supponiamo che don Luigi Smiderle vada in Italia meridionale, e ne combini una facendo un grosso sbaglio. Viene a casa don Marcello e dice: “Ragazzi, è capitato questo...”; lui fa fatica a dirlo perché teme che nel dirlo Smiderle si offenda e stia male, e allora dice appena una parola; ma poi tocca a lui rimettere tutto a posto e riattaccare i pezzi rotti. Don Marcello, sono sbagliate queste cose? Non è questa la realtà? È difficile fare questo e lo dico perché sono ventisei o ventisette anni che io porto questi pesi. Vorrei quasi dire che è impossibile che uno che non ha il naso in qualche responsabilità si renda conto di quanto pesi sulle spalle la responsabilità, nel senso che la responsabilità si sente, il dovere si sente. Tu, don Guido, hai in mano l’esternato e devi domandarti continuamente: “Ho fatto tutto o non ho fatto tutto?”. Gli altri, terminato il loro compito, vengono via: hanno in mano il loro gruppo e ce la mettono tutta; gli assistenti hanno in mano il loro gruppo, lavorano, si preoccupano, svolgono un ottimo servizio, ma colui che ha in mano tutto si deve preoccupare anche del piccolo particolare e pensarci sopra. Perciò io direi che nella Comunità c’è la carità quando colui che è superiore si consuma per la Comunità, e quando gli altri capiscono colui che ha la responsabilità e lo aiutano, non solo con la preghiera, ma anche sapendo capire, stringendoglisi attorno in modo che lui senta che benché siano in sei o sette sono uno. Lui deve sentire che sono uno: allora c’è la carità! Non potete accontentarvi di dire: “Basta che otteniamo il permesso di don Guido...”. No, stiamo collaborando tutti insieme e perciò dobbiamo metterci tutti insieme, vorrei quasi dire che dovrebbero saltar fuori iniziative continue da parte di tutti. Ad esempio: “Don Marcello, si potrebbe fare così... Ho pensato molto questa notte: non si potrebbe fare così? Che cosa ne dici?”. Dobbiamo essere tutti motori, tutti motori, ma con la disponibilità a capire chi è in testa. E questo un domani può essere anche il vescovo, senza pretendere cioè che chi è in testa sia perfetto.COMUNITÀ
condivisione
ESEMPI superiore
COMUNITÀ
superiore
COMUNITÀ
confratelli
COMUNITÀ
unità
nella carità
COMUNITÀ
Il vescovo di Crotone, S. E. monsignor Pietro Raimondi, era un uomo semplice, pio e buono. Giunto con buone intenzioni e volontà di rinnovamento fu fermato subito dall’immobilismo dell’ambiente sociale del crotonese e da una Chiesa che spesso preferiva abbassare il capo davanti al potere locale piuttosto che combattere.
Forse don Ottorino si riferisce a Luigi Pinton, che all’epoca stava terminando il 1° anno del corso liceale.
MI192,5 [21-06-1967]
5 Quante volte vi ho detto, lasciando da una parte per il momento le nostre Comunità: “Andando in giro per il mondo troverete dei vescovi che sono uomini, sono uomini”, e tante volte sono uomini che non hanno ricevuto quello che avete ricevuto voi. Bisogna saper comprendere, capire, e d’altra parte bisogna rispettare quell’autorità che Dio ha messo in loro. Domandate a don Marcello se si è trovato davanti a un uomo o no, a Crotone: un uomo buono, un uomo santo fin che volete, ma uomo. Quando andrete in America Latina troverete un altro uomo, quando andrete sulla luna troverete un altro uomo ancora: troveremo l’autorità che Dio ha messo, e questa autorità Dio l’ha messa in mano a uomini. Ora bisogna che sappiamo conciliare carità, rispetto e obbedienza, ma nello stesso tempo sapere anche fare la volontà di Dio senza rotture: non si tratta di menare per il naso alcuno, si tratta, come abbiamo detto tante volte, di vedere che cosa Dio vuole e poi usare mezzi idonei per collaborare con l’autorità, aiutandola a fare quello che il Signore vuole. Non so se sbaglio nel dire questo: aiutare l’autorità a fare. In un’altra circostanza dicevo che se so che andando a domandare una cosa a monsignor Raimondi di mattino lui mi dice di no, mentre a me sembra che sia giusta perché ne abbiamo parlato insieme in Comunità, e siamo d’accordo che sarebbe conveniente fare quella Messa in quel dato momento, ma so che se vado dopo pranzo quando ha mangiato e ha bevuto un buon bicchiere di vino mi dice di sì, sarei uno sciocco se non vado dopo il pranzo. Questo non è per abusare dell’autorità, ma per aiutare l’autorità a fare e a fare meglio. Questa è collaborazione! E questo, vi dico, fatelo anche con me. Non per fare quello che volete voi perché sareste doppiamente responsabili, ma pregando, pensandoci sopra, consigliandovi tra di voi, per fare quello che vuole Dio, perché stiamo cercando quello che vuole Dio e perché vogliamo consumarci per il bene delle anime. Quando dico per le anime, dico anche per i corpi, perché siamo composti di anima e di corpo, caro Luigino . Andiamo avanti. “Si deve pensare soprattutto a persone preposte alla comunità, sia che Paolo stesso le abbia costituite prima della sua fuga, sia che lo abbia fatto poi Timoteo per suo incarico... Una comunità cristiana è una fraternità. La vita in essa è regolata dall’amore fraterno. Ma l’amore sa che dev’essere gerarchicamente ordinato e sa a chi deve subordinarsi. Nell’amore l’uno è ‘sottoposto all’altro nel timore di Cristo’. In tal modo non ci può essere discordia e si conserva la pace. Così, nell’amore che cerca ovunque l’unità, molte cose si ordinano da sé”.CHIESA Vescovo
MISSIONI
COMUNITÀ
superiore
CARITÀ
CONSACRAZIONE obbedienza
VOLONTÀ
di DIO
DOTI UMANE criterio
DOTI UMANE collaborazione
Nell’esempio don Ottorino sottolinea la differenza fra Gaetano Scortegagna che stava completando il 3° anno del corso teologico e Raffaele Testolin che era neo professo da pochi mesi, e immagina come superiore il più giovane.
L’episodio di Balaam e della sua mula è narrato in Num 22,22-35.
MI192,6 [21-06-1967]
6 Ecco Gaetano inserito in una Comunità, e a capo della Comunità c’è Raffaele. È vero che Gaetano deve mettercela tutta e dire: “Raffaele, senti, guarda... mi pare... Secondo me sarebbe conveniente fare così: che cosa ne dici?”, ma non può pretendere che colui che è in testa della Comunità si lasci convincere a fare quello che a lui pare conveniente. Tu hai il dovere di dire la tua parte, di illuminare, perché ci possono essere delle circostanze tali che sfuggono a quello che è in testa. Il Signore qualche volta può parlare anche attraverso la mula di Balaam , e può illuminare il superiore attraverso di te perché possiate lavorare in collaborazione, ma tu non devi insistere o pretendere sempre che il superiore faccia quello che a te pare vada bene. Ti resta il dovere di proporre, di collaborare, di mettercela tutta, ma può esserci il momento in cui il Signore illumina in modo particolare il superiore o il superiore conosce delle cose che tu non conosci... ovvero lo fa anche sbagliare perché il Signore vuole essere lui ad agire. Il superiore può avere dei motivi che tu non conosci, per cui è conveniente che si faccia diversamente; lui può anche sbagliare, e il Signore, magari attraverso uno sbaglio, vuole fare una cosa diversa da quella che tu pensi e da quella che lui stesso pensa. È sbagliato questo, don Marcello? Se vuoi aggiungere qualche parola, tu che hai esperienza di questi problemi... Non ti pare che queste cose siano secondo il Concilio? Cioè non dobbiamo dire: “Guardate me”, ma restare con il Concilio che su questo punto ha parlato chiaro, e cioè: siamo tutti a servizio! Giù capitelli e troni e tronetti del superiore: siamo tutti a servizio! Siamo a servizio, non perché prendiamo la particola consacrata e la mettiamo sopra l’altare, ma perché ci siamo donati a Nostro Signore e siamo sempre offerti a Nostro Signore. Cioè, se da una parte diciamo: “Tu, superiore, sei a servizio, devi cercare solo la volontà del Signore e devi sforzarti di cercarla in compagnia, cercarla insieme con i fratelli, in modo che ognuno sia nel suo posto e possa sviluppare la sua personalità, possa lavorare più che gli è possibile...”, dall’altra parte dico: “Signori, siamo offerti al Signore, e perciò, attraverso il superiore, abbiamo la volontà di Dio”. Perciò non possiamo dire: “Ma, io...”.COMUNITÀ
superiore
DIO passaggio di...
DIO scoperta di...
CHIESA Concilio
COMUNITÀ
servizio reciproco
COMUNITÀ
confratelli
EUCARISTIA
CONSACRAZIONE offerta totale
VOLONTÀ
di DIO
CONSACRAZIONE obbedienza
Don Marcello Rossetto era il superiore della Comunità di Crotone che serviva alcune parrocchie della città tra le quali c’era quella del S.Cuore nel rione S. Francesco.
MI192,7 [21-06-1967]
7 Per esempio, tu don Marcello mandi uno in un dato posto dicendogli: “Tu vai a San Francesco: va’ e fa’”. Tu devi andare e devi mettercela tutta. Non puoi tornare dicendo: “Sono andato, non ho visto nessuno e sono ritornato a casa”. No, devi andare e scovare i figli di Dio, lavorare e lavorare finché non saltano fuori. Ma se ti dicono: “Va’ a San Francesco, però fermati a metà strada, non oltrepassare quella casa!”; allora, scusatemi tanto, se non c’è un motivo proporzionatamente grave uno deve fermarsi per strada. Non so se sbaglio a dire queste cose. Tu vai e metticela tutta e non scusarti dicendo: “Mi ha detto che vada solo fino a quella casa”; per cui se vedi un’anima che ha bisogno, va’ avanti, avanti. Ma se a un dato momento tu hai ricevuto l’ordine da un superiore, che può essere anche vent’anni più giovane di te, che può essere più cretino di te, meno intelligente di te, e quel superiore ti dice: “Tu vai, ma fermati a quel punto, al trentottesimo parallelo...”, devi fermarti a quel punto. A meno che oltre quello non ci sia un caso grave che tu sai già che non era previsto, e allora dici: “Caro superiore, tu mi avevi detto di fermarmi a quel punto, ma ho trovato uno che stava morendo al di là di quel limite e gli ho dato l’assoluzione”, e allora ti prendi la tua responsabilità e fai quello che devi fare: “Mi sono incontrato... ho trovato qualcuno e ho creduto conveniente...”, ma ti accorgi subito se fai quello che ti piace o no.ESEMPI comunità
CONSACRAZIONE obbedienza
COMUNITÀ
superiore
VOLONTÀ
1ª Tess. 5,14.
Avere un ‘rametto’ in gergo popolare significa avere qualche idea bizzarra in testa, essere un po’ pazzi.
Cfr. 1 Corinzi 11,30: “... vi sono tra voi molti malati e molti infermi...”.
MI192,8 [21-06-1967]
8 Pensate, che bella sarebbe la vita comune così! La vita comune si capisce soltanto se ci vogliamo bene gli uni gli altri, e volersi bene vuol dire saperci compatire. E già che c’è tempo trattiamo anche questo punto. “Vi esortiamo pure, o fratelli: correggete i disordinati, incoraggiate i pusillanimi, sostenete i deboli”. “L’esortazione dell’apostolo ad aver cura spirituale dei disordinati, dei pusillanimi e dei deboli, non è rivolta soltanto agli uomini preposti alla comunità, bensì a tutti i fratelli, a tutti i membri della comunità”. C’è, per esempio, in una Comunità uno debole: essere debole vuol dire che uno non ha ricevuto dieci talenti, uno che ha un modo di pensare un po’ strano, uno che è difficilino da trattare per il suo modo di fare. Non tocca soltanto al superiore sopportare il debole, ma tocca a tutti comprendere e aiutare il debole. Non si deve restare alla finestra a guardare, lasciando che se lo ‘pappi’ colui che è in testa, e gli altri si lavano le mani: “Tocca a lui! Non è lui il superiore? Che se lo porti lui sulle spalle!”. Guardate che queste cose sono importanti! “Saper sopportare i deboli” vuol dire mettere già in preventivo che in ogni Comunità ci sarà qualcuno di debole: io non penso che ci siano dei disordinati, dei pusillanimi... Pensiamo ai deboli nel senso che dicevamo prima, che vuol dire che non sono cretini del tutto, ma un pochino difficili. Un ‘rametto’ lo abbiamo tutti, e perciò tutti siamo un po’ deboli. ‘Imbecilles’ lo siamo un po’ tutti; saper sopportare è partire con l’idea che “inter nos sunt multi imbecilles”: “inter nos” invece che “inter vos”. Dobbiamo partire con l’idea: “Io vado in una Comunità dove non c’è la perfezione; mi troverò a vivere con uomini, e io sono uomo forse più degli altri”. Tutti abbiamo qualche punto debole: uno che russa di notte disturba gli altri che dormono, o quell’altro che non è capace di prendere sonno alla sera e allora disturba chi invece vorrebbe dormire... bisogna saper compatire, saper aiutare questa povera gente. È la carità verso i deboli che conta, altrimenti si resta al livello del sentimento.COMUNITÀ
confratelli
COMUNITÀ
servizio reciproco
COMUNITÀ
unità
nella carità
COMUNITÀ
correzione fraterna
COMUNITÀ
corresponsabilità
COMUNITÀ
uniti nella diversità
Cfr. Genesi 4,9.
Don Bruno Tibaldo faceva parte della Comunità di Crotone, come Vittoriano Rossato nominato subito dopo, mentre don Pietro Martinello faceva parte della Comunità della Casa dell’Immacolata di Vicenza.
MI192,9 [21-06-1967]
9 Quando diciamo la parola amore, intendiamo volerci bene. Non si può dire: “Ti voglio bene perché mi piaci, perché hai un bel ciuffetto, un bel nasetto, perché mi fai un bel sorrisetto”. Quella non è carità, quello è sentimento. La mamma vuol bene al suo figliolo anche se è scemo, anche se è deficiente, perché è il suo figliolo. Io voglio bene a te perché sei mio fratello, e sei mio fratello non solo perché sei cristiano, ma perché siamo religiosi di una stessa Famiglia e collaboriamo per la stessa causa, siamo consacrati alla stessa causa. “La comunità infatti è come una famiglia, un campo di azione pastorale, nel quale l’uno è responsabile della salute dell’altro”. Siamo in cinque, siamo in sei, siamo in quattro? Ognuno è responsabile della salute dell’altro, della salute spirituale e della salute fisica. Tu sei responsabile di tuo fratello quasi come Caino a cui il Signore ha chiesto conto di Abele: “Dov’è tuo fratello?”. “Io non centro; è don Marcello il superiore”. No, tutti, tutti siamo responsabili! “Tu, don Pietro, com’è che don Bruno è ammalato?”. “Che cosa centro io?”, potrebbe rispondere don Pietro. No, centri anche tu. “Come mai ho visto Vittoriano, poverino, così depresso?”. Ognuno è responsabile della salute fisica e spirituale del fratello: questa è carità. Questo è il volersi bene, nel vero senso della parola, in una famiglia. “Tutti i particolari uffici e funzioni di una comunità devono essere perciò inseriti armoniosamente nella compagine della sua vita, nella quale ognuno serve e lavora secondo il proprio dono”. Uno è capace di insegnare il canto, è capace di cantare? Insegnerà a cantare! Uno è bravissimo a fare conferenze? Bene! A seconda del suo dono, a seconda delle sue possibilità, secondo i doni ricevuti da Dio, tutti dobbiamo essere a servizio della Comunità. Uno è capace di fare la malta? Farà la malta! Uno è capace di fare i mattoni? Farà i mattoni! Uno è capace di fare il falegname? Farà il falegname! Questo vale nel campo spirituale e nel campo materiale, ma tutti siamo insieme per costruire la grande famiglia di Dio, per trasformare tutte le creature in tanti fratelli, e allora, secondo i doni ricevuti da Dio, dobbiamo fare: però tutti a servizio! In una Comunità siamo in sei: io servo, e ognuno serve gli altri e, da ultimo, serve se stesso.CARITÀ
ESEMPI carità
CONGREGAZIONE appartenenza
COMUNITÀ
corresponsabilità
DOTI UMANE
COMUNITÀ
Mons. Luigi Volpato era stato il padre spirituale di don Ottorino durante gli anni del seminarietto e l’inizio dell’esperienza pastorale ad Araceli.
MI192,10 [21-06-1967]
10 La mamma prima dà da mangiare al figlio e dopo, se ne avanza, mangia le zampe del pollo. In una Comunità ognuno serve gli altri, ma serve anche materialmente. Se uno arriva a casa in ritardo, gli altri dovrebbero saltare in piedi subito e portargli da mangiare. Uno finisce di mangiare, gli altri dovrebbero alzarsi in piedi e portargli via il piatto. Questo è soltanto un esempio... senza che adesso ci rompiamo la testa per portare via un piatto. Ma questo è lo spirito, non so se sia sbagliato. E invece può capitare l’inverso: che gli altri stiano a guardare e l’altro si metta a servirli; beh, insomma, potrebbe capitare anche questo. Questo è lo spirito: siamo tutti quanti per servire gli altri, secondo lo spirito delle nostre buone mamme, quello che abbiamo imparato dalle nostre buone mamme. “Mangia tu”. “Ma, tu, che cosa mangi?”. “Io mi arrangio, io mi arrangio!”. La mamma rinuncia purché siano a posto i figli. Fra noi dobbiamo volerci meno bene di quello che una mamma vuole al suo figliolo? “Prima di tutto si tratta di correggere i disordinati e negligenti”. È chiaro, siamo uomini! Monsignor Volpato diceva che tutti viviamo qualche giornata da santi, ma questo vuol dire che le altre giornate non sono da santi. Vuol dire, allora, che nelle altre giornate siamo un po’ disordinati, un po’ negligenti, e allora in quelle giornate in cui siamo negligenti abbiamo bisogno che gli altri ci diano una mano, e in quel giorno in cui saremo noi nella giornata da santi aiuteremo gli altri. Quando in una casa passa l’influenza, se uno è a letto con la febbre, la moglie lo serve, e quando si ammala lei il marito fa lui da mangiare; tante volte, nelle famiglie, ci si serve così quando uno è ammalato. La nostra vita è come un’altalena: ci sono delle giornate di fervore, mentre il giorno dopo si può andare un pochino giù, e allora si può anche essere disordinati, pregare meno... e allora la carità fraterna spinge a portare da mangiare al fratello o a portargli via il piatto quando ha finito di mangiare, ti spinge anche a dire una parola buona, una parola di incoraggiamento, a pregare per il fratello, a circondarlo di affetto in modo particolare e a intervenire anche, così, fraternamente, con la correzione fraterna, senza far sempre intervenire quel benedetto superiore che pare sia lì per bastonare. Invece si può benissimo, da buoni fratelli, darci una mano e sostenerci. Quando uno ha male ad una gamba si attacca a braccetto dell’altro e quando uno è vecchio si attacca a braccetto di uno giovane per andare per le scale alla sera perché è stanco.ESEMPI carità
ESEMPI comunità
COMUNITÀ
servizio reciproco
FAMIGLIA mamma
CREATO
COMUNITÀ
correzione fraterna
FAMIGLIA coppia
Cfr. Giovanni 17,21.
“Va’ pensiero sull’ali dorate” è il famoso coro del Nabucco di Verdi: è una preghiera che va cantata lentamente e sommessamente. “Quando marciano per via...” è una marcia militare allegra e veloce che usano soprattutto i bersaglieri per ritmare la loro corsa.
MI192,11 [21-06-1967]
11 “Quando in una comunità la carità fraterna è viva, il peccato viene vinto dall’aiuto vicendevole. L’uno si preoccupa dell’altro e ognuno veglia sui suoi fratelli. Ecco, la disciplina giuridica penitenziale della Chiesa si inserisce in questo contesto di premure fraterne e si basa sul fondamento di una tale fratellanza spirituale. La vita dei fedeli che aspettano la venuta del Signore, è una vita nello Spirito del Signore, ed è quanto mai viva e generosa”. Se in una Comunità siamo cinque o sei e stiamo aspettando il Signore, quando il Signore viene vuole trovarci ‘uno’ ; non ‘uno’ soltanto tra i cinque o i sei della Comunità, ma ‘uno’ con tutta la parrocchia. Non possiamo noi mangiare il pollo mentre gli altri patiscono la fame, avere i soldi in banca mentre gli altri piangono perché devono pagare una cambiale, essere pieni di grazia di Dio mentre gli altri sono in peccato mortale. Siamo ‘uno’ non solo con la parrocchia, non solo con una regione, ma con il mondo intero. Quando Dio viene a chiamarci, ci vuole ‘uno’, e secondo la nostra possibilità dobbiamo sacrificarci per far diventare tutti gli uomini ‘uno’, e questo è possibile se formiamo questa unione nello Spirito Santo. Come un ubriacone non sogna che bere quattro bicchieri di vino, così noi dobbiamo talmente essere ripieni di Spirito di Dio da non sognare altro che arrivare a questa unità, consumarci per questa unità, affinché tutti gli uomini abbiano un pezzo di pane, affinché tutti gli uomini abbiano la possibilità di un letto per dormire, affinché tutti gli uomini abbiano la grazia di Dio e si vogliano bene. Noi ci vogliamo bene e dobbiamo darci da fare perché tutti gli uomini si vogliano bene. Che gli uomini finiscano di fare le guerre: “Signore, basta con queste guerre, basta con questi odi, basta...”! Siamo tutti responsabili e bisogna fare qualcosa. “Ma se in un fratello viene a mancare lo slancio gioioso, pieno di pace e di speranza, e subentra la pusillanimità, bisogna incoraggiarlo”. A un dato momento si può benissimo parlare a quel confratello, incoraggiarlo, svegliarlo... come si fa con gli asini che all’inizio cominciano correndo, ma poi cambiano marcia, cioè cominciano ad andare sull’aria di “Va’ pensiero sull’ali dorate”, e allora bisogna, battendoli con la frusta, cominciare a far loro cantare: “Quando marciano per via...” , e allora, un colpo uno e un colpo l’altro, può darsi che battendo con entusiasmo si riesca a fargli cambiare marcia. Infatti i contadini attaccano i buoi a due a due, mettono il giogo sulle spalle dei due perché se uno tira poco e invece quell’altro si muove, quello che va lento è costretto anche lui a muoversi altrimenti si prende indietro, per cui tira anche lui, anche se non ne ha voglia. “Naturalmente ciò presuppone quei carismi che sono atti a risvegliare in cuore un tale fiducioso coraggio. Infine, in una comunità c’è anche una terza categoria di bisognosi di aiuto: i deboli, che hanno continuamente necessità di istruzione e di chiarimenti, di aiuto e di sostegno, per poter vivere la vita comunitaria in tutta la sua pienezza e profondità. È necessario perciò ‘prendersi cura’ dei deboli con amore costante e aver sempre riguardo di loro...”.COMUNITÀ
unità
nella carità
PASTORALE parrocchia
PECCATO
DIO Spirito Santo
CARITÀ
amore al prossimo
DOTI UMANE
COMUNITÀ
servizio reciproco
COMUNITÀ
Cfr. Matteo 26, 11.
Don Ottorino vuol dire che non è colpa sua, né del maestro dei novizi, né dei membri del Consiglio, se viene ammesso ai voti qualche candidato che poi si dimostra inadatto alla vita comunitaria.
MI192,12 [21-06-1967]
12 A questo proposito c’è da ricordare: “Pauperes semper habetis vobiscum” . Io vorrei dire che è quasi impossibile che in una Comunità non ci siano i deboli, per quanta buona volontà ci mettiamo in avvenire, con il maestro dei novizi e compagni, affinché non abbiano da passare dei deboli: infatti può passare uno che sta bene, ma dopo, a un dato momento, prende il raffreddore o si rompe una gamba. Chiaro? Uno può essere robusto come Renzo, ma, a un dato momento, sale su una pianta, cade e si rompe un braccio, e allora con un braccio al collo è diventato debole. Possono capitare cose di questo genere. A vent’anni uno può essere robusto, e dopo, invece, a venticinque comincia diventare vecchio; perciò può darsi benissimo che dopo si diventi deboli. Bisogna stare attenti! Dobbiamo essere svegli noi perché non passino i deboli, ma, dopo, bisogna rassegnarsi perché sempre avremo i deboli nelle nostre Comunità, e stiamo attenti che la superbia non ci accechi e che poi non siamo costretti ad accorgerci che i deboli siamo noi. Perciò dobbiamo prepararci all’idea che in mezzo a noi ci sarà sempre qualcuno un po’ debole, e allora si convive con lui con la carità, si vede in lui il Signore. Il vescovo monsignor Rodolfi era solito dire a monsignor Fanton: “Caro don Carlo, non devi scandalizzarti. Ricordati che quando vai a comprare la carne c’è la polpa, ma anche un po’ di osso”. Anche nelle nostre Comunità ci sarà un po’ di osso... Quant’è bello qualche volta vedere qualche papà e qualche mamma che dicono: “Sono venticinque anni che stiamo assieme e siamo andati sempre d’accordo. Beh, qualcosina, qualcosina c’è stata, quella è inevitabile... anzi serve a fomentare la carità. Qualcosina è inevitabile, ma serve a fomentare la carità. Sono cose da niente, qualche colpetto, qualche colpetto....”! Dobbiamo mettere in preventivo la presenza di qualche persona debole o per natura o per un certo periodo. Ci può essere qualcuno che è debole per un certo periodo, che è di peso alla Comunità per la sua debolezza: questo può essere una grazia di Dio perché fomenta proprio la carità. Quante volte ho sentito dire in certe famiglie dove c’è una persona handicappata: “Per noi quella creatura è una grazia di Dio, perché è stato lui che ci ha fusi in carità”!COMUNITÀ
ESEMPI comunità
VIZI superbia
CARITÀ
Don Ottorino conobbe il signor Renato Cepparo di Milano interessandosi di macchine per il laboratorio degli audiovisivi, e da allora l’amicizia divenne sempre più intensa.
Girolamo Venco stava completando all’epoca il 3° anno del corso teologico.
MI192,13 [21-06-1967]
13 Il signor Cepparo di Milano, che ha due ragazzi un po’ sordi, mi ha detto: “Io ringrazio il Signore perché questi due ragazzi, che hanno avuto un bisogno particolare di noi, sono stati quelli che ci hanno fuso in famiglia, che ci hanno cementato nell’unità per cui ci siamo uniti in maniera straordinaria. Io ringrazio il Signore di questa grazia, perché è stata una grazia, una grazia perché ci ha fuso insieme”. Io penso che anche nelle nostre Comunità dobbiamo vivere queste esperienze, senza che noi andiamo a cercare il debole o senza che noi rompiamo le gambe a uno per farlo diventare debole. Ma se ci accorgiamo che uno è debole per cui fa fatica a capire certe cose, per cui se dici una cosa lui ne capisce un’altra, questa potrebbe essere una grazia di Dio mandata alla Comunità per fomentare la carità. Anche a casa tua, Venco , abbiamo trovato tua zia, mamma di quella povera figliola spastica di vent’anni, che diceva: “È il nostro angelo, il nostro angelo!”. Quando ho predicato un po’ di ritiro in preparazione della festa del Sacro Cuore alle Suore Dorotee ho raccontato il fatto della nipote dei Venco alla madre generale e alle suore presenti. Ho narrato loro come sono entrato in quella casa e ho visto quella povera ragazza di vent’anni che non capiva niente e che mandava grida in continuazione, seduta su una sedia, e la mamma che diceva: “Questo è il nostro angelo, questo è il nostro angelo!”. Quella mamma ha dell’eroismo nell’aver cura di una creatura che non conosce, che non mostra l’affetto alla mamma e al papà e che ha bisogno di tutte le cure. E la mamma dice: “Questo è il nostro angelo!”. E allora ho detto alle suore, che erano ventiquattro o venticinque: “Voi avete tante Comunità. State attente! In ogni Comunità c’è un angelo, più o meno angelo, ma c’è un angelo, quando non sono due o tre. E allora sappiate vedere veramente questo: un angelo che il Signore ha messo in casa perché portiamo pazienza, perché abbiamo modo di esercitare la carità”. Attenti: non dobbiamo metterci le ali per diventare angeli apposta per tormentare gli altri, ma se il Signore manda qualche angelo, accettiamolo dalle mani di Dio.CROCE
GRAZIA
COMUNITÀ
unità
nella carità
FAMIGLIA
AUTOBIOGRAFIA
ESEMPI carità