Anche per questa meditazione don Ottorino si serve del commento di HEINZ SCHÜRMANN, Prima lettera ai Tessalonicesi, Città Nuova editrice Roma 1965. Le citazioni, prese dalla pag. 99, vengono sempre riportate in corsivo senza ulteriori richiami.
1ª Tessalonicesi 5,14.
Don Guido Massignan era all’epoca direttore della Casa dell’Immacolata e segretario generale della Congregazione.
Gaetano Scortegagna stava completando all’epoca il 3° anno del corso teologico.
Forse don Ottorino si riferisce all’assistente Vinicio Picco, che all’epoca era consigliere generale.
MI193,1 [22-06-1967]
1 Ieri mattina abbiamo cominciato a trattare il dovere di “prendersi cura dei deboli”; lo ricordo leggendo le ultime parole del commento del nostro testo. “... e siate longanimi con tutti”. “Questa esortazione sembra riassumere in sé tutte le altre. Le prime comunità cristiane erano fraternità con una vita comune molto estesa”. Molto estesa! La vita comune per noi deve essere molto estesa, non ridotta a qualche momento soltanto, a cinque minuti quando si mangia: la vita comune deve essere molto di più. Dev’essere vita comune non solo perché si va a tavola, ma perché si resta a parlare delle cose nostre. Io penso che quando un domani in una Comunità ci si ferma a tavola, magari cinque minuti soltanto se è possibile, questo fa parte della carità. Non so se sbaglio in questo. Tu, don Guido , che cosa ne dici? Per esempio, un domani vi troverete in una Comunità ed è chiaro che ci sono tante cose che dovete fare e le dovete fare bene, ma dovete dire: “Bene, adesso siamo qui a mezzogiorno e ci fermiamo insieme un pochino, cinque minuti!”. Se c’è una urgenza, non si discute; se c’è un ammalato grave, se c’è qualcosa, non si discute e si va a fare il servizio richiesto. Se, per esempio, viene una persona a domandare un consiglio, viene una signora, un avvocato... non ci si ferma due minuti, ma si dedica loro un quarto d’ora, una mezz’ora. Se una persona viene da te, don Gaetano , non la tratti in forma sbrigativa, ma le chiedi: ”Come sta, signora? Come va?”, e le dedichi dieci minuti o un quarto d’ora. Durante la giornata un quarto d’ora lo diamo a tante persone perché altrimenti non saremmo neanche uomini, e lo diamo per un motivo umano e per un motivo soprannaturale. Scusate tanto, e questi confratelli che hanno lavorato una giornata intera, e hanno dato la vita al Signore, che se fossero fuori avrebbero una moglie e dei figli e avrebbero la gioia di avere dei figli che saltano sopra le loro ginocchia, di abbracciarli, eccetera eccetera, non hanno, forse, il diritto di dieci minuti di compagnia, di tranquillità dopo aver mangiato per scambiarsi una parola, per dire una parola? Dico male? Esagero, signor consigliere?COMUNITÀ
fraternità
COMUNITÀ
conduzione comunitaria
PASTORALE malati
CARITÀ
APOSTOLO uomo
MI193,2 [22-06-1967]
2 Perciò, mi raccomando, nella vita di Comunità ci deve essere molta intesa e intesa anche in quella parte che sembrerebbe umana, ma che è necessaria. Penso che anche la Madonna, Gesù e Giuseppe, si siano fermati qualche volta a conversare, non per fare i sentimentali, ma per manifestarsi il loro affetto, per scambiare una parola fra di loro. Senza stare delle ore a chiacchierare, c’è sempre un equilibrio da mantenere, come tra la minestra senza sale o troppo salata in mezzo c’è la minestra salata in modo giusto. Dico male? Tra la minestra troppo salata e quella senza sale, c’è quella salata giustamente; tra l’esagerazione di mangiare sempre di corsa e di restare a chiacchierare per ore, c’è in mezzo la convenienza di volersi bene e di restare un momentino a condividere insieme. “Vivere in comunità significa però sopportarsi a vicenda, aver pazienza con il fratello, ritentare sempre di nuovo con lui, senza impazientirsi né rinunciare alle comunione”. Dobbiamo sopportarci a vicenda. Bisogna partire già pensando: “Siamo in una Comunità di quattro: io devo essere sopportato e devo sopportarne tre”. Non c’è niente da fare! Se io pretendo di non aver bisogno di essere sopportato e di non voler sopportare alcuno, è impossibile la Comunità. Quando si fa questo, bisogna già mettersi nella convinzione che io devo vivere assieme a loro, che noi dobbiamo vivere insieme. È chiaro che se io faccio un viaggio in uno scompartimento da solo posso anche russare, posso sdraiarmi sui sedili, ma se nello scompartimento siamo in sei o siamo in otto, io devo sopportare gli altri, ma gli altri devono sopportare me. Supponiamo che io entri in uno scompartimento da quattro posti e ci siano già altre tre persone, io entrando dico dentro di me: “Accidenti, quanti ce ne sono! Io speravo di fare il viaggio di notte e potermi sdraiare, avere tutto il posto per me solo!”, ma anche gli altri possono dire: “Accidenti, ne viene dentro un altro!”. È chiaro? Io guardo me stesso e dico: “Accidenti, è tutto occupato! Almeno ho un posto dove sedermi!”, ma gli altri che cosa pensano? Guardate che nella vita comune è così: io mando accidenti agli altri, ma gli altri li mandano a me. Per questo ci vuole tanta umiltà, figlioli, e dobbiamo ripeterci: “Chissà gli altri quanto devono compatirmi!”. Ma noi non siamo convinti che dobbiamo essere compatiti. È raro, è rarissimo trovare uno che realmente sa di puzzare e che è convinto che con il suo odore rende nauseante la vita comunitaria: è rarissimo, e io credo di non averne mai trovato realmente uno. Eppure, eppure, guardate che tutti entrando nello scompartimento rendiamo più pesante lo scompartimento. Dopo, se ci mettiamo a chiacchierare, gli altri diranno: “Oh, che conversazione! Dentro di noi pensavamo che era un altro che veniva a prendere il posto e al primo momento abbiamo detto: ‘Accidenti!’, e invece guarda che bellezza: è stato quello che ha rallegrato la compagnia durante il viaggio, tanto che è passato in un attimo!”. Prima, però, hanno fatto il sacrificio e hanno detto: “C’è un’altra seccatura che viene dentro!”.COMUNITÀ
dialogo
COMUNITÀ
fraternità
MARIA
DOTI UMANE
ESEMPI equilibrio
COMUNITÀ
condivisione
COMUNITÀ
comunione
VIRTÙ
pazienza
COMUNITÀ
unità
nella carità
ESEMPI carità
COMUNITÀ
Il riferimento è a Raffaele Testolin, neo professo da pochi mesi.
MI193,3 [22-06-1967]
3 Gli esempi calzano fino a un certo punto, sono immagini, ma sono immagini che dicono qualcosa. Resta questo: - vivere in Comunità significa sopportarci a vicenda, - quando ci dicono che dobbiamo volerci bene, significa che ci dobbiamo sopportare a vicenda, saperci comprendere, saperci capire. C’è una giornata che tu non hai voglia di parlare e l’altro ha voglia di parlare e non la finisce più, e c’è quella giornata, viceversa, che tu hai voglia di parlare e l’altro ha voglia di tacere. C’è la giornata in cui uno ha voglia di bere un bicchiere di vino e dice: “Ragazzi, beviamo un bicchiere? Apriamo una bottiglia?”, e gli altri: “Ah! Ah!”, e quel poverino che aveva sete deve far a meno di bere. E se un’altra volta un altro dice: “Ragazzi, facciamo una focaccia per domani?”, e gli altri: “Ah! Ah! Ah!”, quel poverino che ha un desiderio da soddisfare, una volta per uno, una volta per l’altro, non gli va mai diritta. La carità dice: “Beh, ragazzi, apriamo una bottiglia?”, e Raffaele che non ne ha voglia, dice lo stesso: “Bene, bene, sì, sì...”: ecco la carità! Dico male? Porto l’esempio di una bottiglia, ma se uno ha bisogno di un gelato può essere un gelato e può essere anche un’ora di adorazione: ecco la carità! Può essere anche dire una corona in compagnia: ecco la carità! Non so se esagero. La vita è fatta di queste piccole attenzioni, non di cose poetiche. Bisogna saper vedere il desiderio del fratello e accettarlo quando in cortile ti dice di dargli una mano, con serenità, con gioia, in modo che il fratello abbia quasi l’impressione - e teniamo pure il paragone banale della bottiglia - di averti fatto un piacere nel manifestare il suo desiderio. Portiamo un caso pratico: siamo insieme con don Luigi, Raffaele e Vinicio, e io dico: “Ragazzi, vi va una bottiglia? Apriamo una bottiglia?”, e Raffaele: “Sì, sì, don Ottorino”, e magari non ne ha neanche voglia, ma lo fa per fare un piacere a me: ecco la carità, ecco la carità! Quello che vale è la gioia di avere fatto un piacere, e magari tu l’hai fatto a lui. “... aver pazienza con il fratello, ritentare sempre di nuovo con lui...”.COMUNITÀ
uniti nella diversità
COMUNITÀ
unità
nella carità
COMUNITÀ
condivisione
CARITÀ
EUCARISTIA adorazione
PREGHIERA rosario
COMUNITÀ
Girolamo Venco stava completando all’epoca il 3° anno del corso teologico.
Lorenzo Meneguzzo era una vocazione adulta, entrato da poco nella Casa dell’Immacolata dopo aver conseguito il diploma di perito agrario.
MI193,4 [22-06-1967]
4 “È inutile, con quello non c’è niente da fare!”, si dice a volte. Per esempio, vado in America e trovo Venco , superiore della Comunità, e dico: “Come va?”. E lui mi risponde: “Ah, con Renzo non c’è niente da fare, niente da fare! Glielo dicevo io quando eravamo a Vicenza. Io gli dico di impiantare fagioli e lui impianta granoturco; se parliamo insieme e pensiamo di piantare granoturco, lui vuole piantare angurie. Che cosa vuole; è sempre la solita storia: niente da fare!”. E invece bisogna ritentare di nuovo. Figlioli, una mamma non dice mai con il figliolo: “Niente da fare!” e lo butta fuori dalla finestra. La mamma piangerà a causa del figlio, sarà avvilita perché non sa che cosa fare, ma mai la mamma disarma, neanche se il figlio è condannato all’ergastolo: la mamma non disarma mai! Se nella nostra Comunità c’è veramente la carità, non disarmiamo mai. “È vero, sì, che Renzo non cambia mai. Sono vent’anni che siamo insieme, sono vent’anni che cerchiamo di capirci. Si porta pazienza, che cosa vuole! Sappiamo com’è fatto, poverino; lui farà tanti meriti, poverino, perché è così. Il Signore lo ha fatto grande e grosso: che cosa ci possiamo fare? Una volta si siede in fretta su una sedia e la sfonda, un’altra volta ti stringe la mano e ti spacca le ossa, un’altra volta... che cosa vuoi farci! Ha già rovinato quattro o cinque persone, e dopo vengono a chiedere il risarcimento dei danni... È fatto così, va bene, pazienza...”. Dico male? Bisogna accettare anche le deficienze delle persone. Dunque: “... ritentare sempre di nuovo con lui, senza impazientirsi né rinunciare alla comunione”. Non bisogna mai dire: “Beh, quello là... ah, quello là è un povero tonto!”. “Quanti siete in Comunità?”. “In tre!”. “Non eravate in quattro?”. “Beh, insomma, Renzo noi neppure lo contiamo! Benché sia grande e grosso e con muscoli potenti, noi neppure lo contiamo!”. Bisogna non rinunciare mai, non rinunciare mai!COMUNITÀ
confratelli
COMUNITÀ
fraternità
CROCE sofferenze morali
FAMIGLIA mamma
VIRTÙ
pazienza
COMUNITÀ
Nel testo registrato si ascolta una voce che risponde: “Tre, quattro”.
MI193,5 [22-06-1967]
5 Se andate lassù, nella casa dello zio di Venco e chiedete: ”Quanti sono in casa dove c’è tua cugina malata, poverina?”. Tu hai detto tre, quattro con la cugina ammalata; se domandi a tua zia: “Quanti siete in casa?”. “Quattro!”, ha risposto quella volta che siamo andati; non dice: “Tre e....”. Ecco la differenza: tu dici “Tr, e mia cugina ammalata”, e loro dicono: “Quattro, regolarmente quattro!”; non si sognano neppure di dire: “Siamo in tre più uno!”. Ecco, è sbagliato, fratello? Perciò vi dico: “... ritentare sempre di nuovo con lui, senza impazientirsi né rinunciare alla comunione”. Perché insisto su questo aspetto? Perché, figlioli, verrà qualcuno che purtroppo peserà; finiremo per avere nelle nostre case qualcuno che pesa, che pesa veramente. Ricordatevi che a volte ci può essere uno che pesa perché, per esempio, è ammalato per trenta o quarant’anni. Quello è avvilito perché dice: “Che peso sono alla Comunità! Quanti sacrifici devono sostenere per me!”; ma non è tanto costui che pesa quanto quello che è malato e non sa neppure di essere ammalato: è costui che pesa veramente, perché quello che è a letto si umilia: “Che peso sono per voi!”. “Ma lascia stare, in te serviamo Gesù”. “Ma intanto invece di essere a lavorare siete qui e io invece di aiutarvi sono qui a darvi peso e a domandarvi sacrifici!”. “Ma lascia stare”. “No, io qua sono di peso!”. Non sono queste le persone che pesano. Quelli che sono ammalati sono come quelli che mangiano più di un altro. Per esempio, c’è Raffaele che mangia un panino mentre Renzo ne mangia sette. Non ti bastano sette panini a pasto? Avete capito? Uno ammalato è colui che esige un po’ di sacrificio, e sarebbe come quello che mangia un panino in più, e vuol dire che ha bisogno di un po’ di sacrificio in più.COMUNITÀ
unità
nella carità
COMUNITÀ
uniti nella diversità
CROCE
MI193,6 [22-06-1967]
6 Ma quello che pesa realmente è colui che si crede giusto e che giusto non è. Quando tutti siamo d’accordo di dire che c’è il sole, lui dice che piove; quando tutti siamo d’accordo di andare fuori con l’ombrello, lui va fuori senza ombrello; quando diciamo: “Bisogna che adesso andiamo a stendere la roba da asciugare”, lui dice che bisogna portarla un’altra volta in lavanderia per rilavarla, cioè appena lavata la lava un’altra volta. Questo, per me, è colui che pesa, perché in questo modo si arresta tutto. E allora, fratelli, io vi dico una cosa: come si fa a trovare la forza? Perché Gesù lo vuole, perché lo ha comandato Gesù, perché nel fratello che pesa bisogna vedere Gesù. Sì, questo è un motivo certamente forte, cioè quando mi convinco che è il Signore che ha permesso questo, che ha voluto questo, allora trovo la forza. Ma c’è anche un motivo umano, che si può proprio trovare, e sta nel chiedersi: “E se fossi io? E se capitasse a me ad essere di peso, come vorrei essere sopportato?”. Se oggi, ad esempio, don Luigi entra in depressione, io devo dire a me stesso: “È caduto in questa forma di esaurimento”. “No, si tratta di cattiveria!”. “Lascia stare, lascia stare... Può darsi che io viva ancora trent’anni, e fra due anni io caschi in una situazione dieci volte peggiore della sua”. E allora preferite voi avere la gobba o sopportare uno che ha la gobba? Preferite essere ciechi o dare una mano a uno che è cieco? Anche se è un po’ schifoso perché è pieno di piaghe sul viso e fa schifo mangiare insieme, preferiresti essere tu pieno di piaghe per non avere lui davanti che ti faccia schifo? “Eh, no, per carità!”. E allora sopporta il fratello che le ha. Chiaro? Questo per quanto riguarda la natura; per quanto riguarda poi lo spirito: Gesù è presente nel fratello che soffre. Siccome dobbiamo essere uomini, il primo passo facciamolo per la natura, e allora ti direi: “Senti, caro, e se capitasse a te?”. E quello che è capitato a lui può capitare a te domani, o anche oggi. E allora io sopporterò lui perché ho bisogno di essere sopportato io, aiuterò lui perché ho bisogno di essere aiutato io. Questa è la parte umana, e se qualche volta non è sufficiente il pensiero del Paradiso per vincere il male, ci può essere d’aiuto il pensiero dell’Inferno che ci fa desistere dalla strada cattiva. Ora, se non altro, fallo per un motivo umano, perché oggi tu sopporti lui, e domani altri sopporteranno te.COMUNITÀ
confratelli
CARITÀ
amore al prossimo
VOLONTÀ
di DIO
CONVERSIONE esame di coscienza
COMUNITÀ
fraternità
ESEMPI comunità
ESEMPI carità
Cfr. 2ª Tim 4,2.
Marco Pinton, che all’epoca stava terminando il 1° anno del corso liceale, era di costituzione gracile, ma aveva un naso leggermente accentuato, e don Ottorino scherza su questo aspetto conoscendo il carattere allegro di Marco, che non solo non si offendeva, ma era dotato di una vena speciale per raccontare barzellette e per tenere allegro il gruppo.
Don Ottorino imita il rumore del tornio che gira.
Zeno Daniele stava terminando all’epoca il 1° anno del corso teologico.
MI193,7 [22-06-1967]
7 “È necessaria la longanimità, se si vuol convivere fraternamente con i disordinati, i pusillanimi, i deboli”. Il cuore longanime non può dire: “Mollo tutto!”. Se uno può portare un mattone soltanto, vuol dire che hai da fare in modo che porti quel mattone; devi insistere ‘opportune et importune’ , con bontà, con carità e con fermezza affinché porti quel mattone. Non pretendere che Marco porti due mattoni, quando sai che con un mattone e mezzo si rovescia: che colpa ha lui se ha un naso che lo porta fuori d’equilibrio per cui è facile che faccia un capitombolo? Cioè, bisogna saper sopportare anche questa deficienza che lo mette in difficoltà. Però non devi dire: “Beh, allora, se vengono solo per essere d’impaccio che mi lascino stare; mi arrangio da solo, e io e Renzo portiamo cinquanta mattoni!”. No, lascia che quel mattone lo porti lui! “Ma, e se lui va lentamente? E se invece lo mandassimo ad asciugare i cucchiai insieme con le donne? Mi è d’inciampo, non serve a niente; me lo tiri via dalla Comunità!”. No, il figliolo sta lì e porta un mattone e quel mattone anzi lo devi mettere in bella vista sul davanzale di una finestra in modo che lui possa vantarsene: “Quel mattone l’ho messo io, quello l’ho messo io!”. Questa è carità! Non dire: “Tu portami un mattone solo!”. No, da’ a lui la gioia, poverino, che almeno possa dire: “Quel mattone l’ho messo io!”. “Ma dopo si fa bello e dice che la casa l’ha costruita lui!”. Ma lascia stare, lasciagli quella gioia; no ne ha altre, poverino! “Paolo vede le cose con chiarezza e realismo”. Bisogna essere oggettivi nelle cose e guardarle come sono, e non in modo negativo: “Oh... no, no, no!”. Quando guardate le cose come sono in realtà, vedrete che c’è tanto di quel bene dentro che, forse, non avete mai pensato che ci fosse. Perché, a prima vista, guardi Marco e vedi il naso che pende in giù , ma prova a fargli aprire la bocca e scoprirai che in lui c’è una venetta allegra che sostiene tutta la Comunità. È così, niente da fare, niente da fare! Bisogna andare in fondo alle cose per vedere bene. “Paolo vede le cose con chiarezza e realismo. Sì, con i disordinati, i pusillanimi, i deboli si esige pazienza”. Fratelli miei, ci vuole pazienza; vi dico che ci vuole pazienza. Sapeste quante volte mi è venuta la voglia di mollare tutto nei primi tempi! Provavi con uno: zzzzzzz e ti veniva fuori storto. Provavi con un altro: veniva fuori storto. Raddrizzavi da una parte e si incurvava dall’altra; premevi di qua e veniva fuori un bozzo di là. Eppure, vedete, con un po’ di pazienza, che santi figlioli sono venuti fuori! Guardate Zeno che santo figliolo, a furia di premere di qua e di là... continua a chiacchierare, ma che non ci sia il modo di farlo tacere?VIRTÙ
pazienza
CARITÀ
CROCE difficoltà
COMUNITÀ
fraternità
Don Ottorino si riferisce ai chierici che avevano la responsabilità dell’assistenza e dell’animazione dei giovani semiconvittori della scuola F. Rodolfi.
Don Ottorino evidentemente celia su Ruggero Pinton, chee all’epoca stava completando il 1° anno del corso teologico.
Esclamazione derivata dalla storpiatura popolare della frase latina: “Iesus tene me”.
MI193,8 [22-06-1967]
8 Figlioli, bisogna avere pazienza! Per voi che siete all’esternato con i ragazzi questa è una delle prime virtù: sapere che tutto dipende da Dio e tutto dipende da noi, e avere pazienza. E avere pazienza non vuol dire: “Va bene, aspetto che si faccia da solo”. No, no, bisogna lavorare ‘opportune et importune’, lavorare con pazienza, sapendo sopportare e comprendere: ci vuole pazienza. Come risposta mi direte che sono tutte cose teoriche quelle che vi dico, ma se ricorderete un po’ di queste cose teoriche, fra dieci o quindici anni direte: “Mamma mia, guai se non avessimo avuto pazienza con Ruggero! Guai se non avessimo avuto pazienza! Era tanto un angioletto nella Casa dell’Immacolata, ma era incoerente perché di nascosto fumava le sigarette, aveva la sua scatolina di tabacco e ha cominciato con il vizietto del fumo, e dopo scendeva a bere il bicchierino di notte. E il superiore della Comunità continuava a fargli osservazione: “Ruggero, proprio tu, come mai?”, e lui “Non sono io”, e prima a mentire e dopo ad ammettere e non ammettere... e tuttavia è stato necessario avere pazienza sperando nella conversione finale”. “Ma è la carità che rende longanimi e pazienti”. Figlioli, è la carità che rende pazienti, la fede in Dio, l’amore di Dio e l’amore del prossimo che danno la possibilità di tenere fermi i nervi. “Iestenemei!” , diceva monsignor Snichelotto quando vedeva arrivare qualcuna di quelle donne; appena arrivavano diceva: “Iestenemei!”. Sai che cosa vuol dire? “Iesus tene me!”, “Signore tieni fermi i miei nervi, affinché non scoppi!”. Qualche volta bisogna proprio dire così: “Iesus tene me! Gesù, tienimi saldi i nervi!”. Quando quattro o cinque si sono messi d’accordo per fare una cosa, e poi uno fa a modo suo, bisogna dire: “Iesus tene me... Iesus tene me... Gesù tienimi i nervi”. E allora tu dici a Ruggero: “Non eravamo d’accordo di fare questo e questo?”, e lui ti risponde: “No, le cose stanno in modo differente!”. “Sta’ attento: si era detto...”, e alla fine dovrai anche dire: “Ho sbagliato io e non tu!”, e accettare che tutto vada cambiato.COMUNITÀ
servizio reciproco
COMUNITÀ
correzione fraterna
FORMAZIONE educazione
COMUNITÀ
superiore
CONVERSIONE
VIRTÙ
fede
CARITÀ
CARITÀ
amore al prossimo
GESÙ
DIO amore a Dio
COMUNITÀ
confratelli
Cfr. 1 Ts 5,15.
Con questa citazione di Atti 1,1 si interrompe improvvisamente il testo registrato e termina la meditazione.
MI193,9 [22-06-1967]
9 Eppure per avere la pace nelle famiglie tante nostre buone mamme fanno così, specialmente quando ci sono suocere, suoceri, generi e spose di mezzo nella stessa casa. “Se sapesse! Qualche volta si fa fatica, ma bisogna tacere. Che cosa vuole: bisogna tacere e portare pazienza, portare pazienza e tacere. E così ci vogliamo bene, e così si tira avanti, e così non c’è mai niente che faccia perdere la pace in famiglia”. Avete mai sentito queste cose? “Bisogna saper tacere e portare pazienza, e allora ci si vuole bene... anche se qualche volta ci sarebbe da rispondere per le rime, ma allora si rompe la pace”. Questo è quello si sente tante volte dalle nostre buone mamme che sono vissute in casa con i fratelli del marito e con vecchi e vecchie e bambini, e sono passate come delle sante nelle nostre famiglie perché hanno saputo portare pazienza, offrire al Signore e vincere “il male con il bene”. Hanno saputo fare del bene, aiutare e dimenticare, fingere di non sapere quando, magari, una donna di casa diceva male della Betta e lei, invece, le faceva il caffè: “Oh, cara Maria!”. Mentre parlo ho degli esempi in mente. Quella continua a dire male di questa con la quale è in compagnia in casa e quest’altra si vendica, andando al mercato e portandole a casa in regalo un grembiule; il giorno dopo questa brontola e quell’altra le fa un piacere. Questa è carità, e questa dobbiamo insegnare agli uomini! “Iesus autem coepit facere et docere”.FAMIGLIA mamma
VIRTÙ
pazienza
CARITÀ
amore al prossimo
FAMIGLIA
CROCE sofferenze morali
ESEMPI carità