Meditazioni italiano > 1970 > LA CONSACRAZIONE A DIO SI PROVA NELLE DIFFICOLTÀ.

LA CONSACRAZIONE A DIO SI PROVA NELLE DIFFICOLTÀ.

MI318 [26-08-1970]

26 agosto 1970

MI318,1 [26-08-1970]

1. Questa mattina la nostra meditazione sarà tratta da questo romanzo giallo, o cenere quanto meno, brossurato a San Gaetano. Questo libretto mi è stato donato da monsignor Botek, come mi suggerisce il nostro caro don Zeno.
È un libretto che raccoglie alcune testimonianze della “Chiesa del silenzio” in Cecoslovacchia. Mons. Botek ha detto che potrebbe essere considerato come gli “Acta martyrum” , ma è appena un pochino di quello che si può dire. “Siamo troppo vicini ai fatti e le persone sono ancora vive e non si può parlare. Abbiamo raccolto alcune testimonianze, ma molte e molte poche”, ha detto. Hanno stampato tremila esemplari di nascosto, e ne hanno dato uno anche al Santo Padre. Quando il Santo Padre l'ha letto, ha fatto le lacrime e poi l'ha consegnato al Segretario di Stato; dopo un po’ l'ha ricercato e non è riuscito ad averlo perché se lo sono passato l'un l'altro. Allora ha telefonato pregando: “Datemene un altro esemplare perché ho piacere di averlo”.

MI318,2 [26-08-1970]

2. In questo libro sono raccontate alcune testimonianze che, certamente, se le leggiamo come un romanzo sembrano un romanzo, ma se ci mettiamo al posto dei nostri fratelli che sono sotto il potere comunista cominciamo a capire che cosa vuol dire restare in prigione per due anni. In poche parole, monsignor Botek ci ha detto: “Sono stato in prigione per due anni”. Si fa presto a dire: “Sono stato in prigione due anni”, ma provate voi ad andare in prigione per due anni, provate ad aspettare che vengano a prendervi in casa, che vi maltrattino, che vi facciano un processo! Noi siamo troppo abituati a leggere simili testimonianze e a non viverle, mentre bisognerebbe mettersi al posto di chi le ha sofferte.
E in questo momento che noi ci troviamo godendo tanta libertà, per la vita religiosa, sappiamo che ci sono dei fratelli che non possono fare quello che noi facciamo. E allora sarebbe il caso di ripetere a noi quello che è stato detto nel bel libro intitolato “Fabiola” quando, una notte, si sono incontrati San Pancrazio e San Sebastiano e si sentivano i ruggiti dei leoni. A un dato momento Pancrazio, stanco, ha detto: “Sebastiano, quanto durerà questo tormento, questa persecuzione?”. E allora Sebastiano ha risposto: “Verrà tempo in cui ci sarà la libertà religiosa. Ma quelli che verranno dopo di noi ne saranno degni, sapranno fare buon uso di quella libertà? Saranno degni di quella libertà?”. Io vorrei, leggendo adesso solamente alcune righe di questo libro, che facessimo un po' il confronto tra i nostri fratelli e noi, e vedere un po' se loro stanno facendo la loro parte e se noi stiamo facendo la nostra parte. Qui è narrato un caso. «Anche se il sentiero di quelli che si erano totalmente consacrati a Dio seguendo i consigli evangelici diventava sempre più arduo e pieno di spine, tuttavia non doveva venir meno il coraggio nei giovani che lo affrontavano». Chi si fa religioso qui in Italia non deve affrontare il pericolo di essere messo in carcere o di essere bastonato, però deve superare un altro pericolo che in seguito esamineremo. «Così Vera M.,- è un nome vero - ancor prima di finire gli studi di medicina, aveva deciso di consacrare la vita a Dio nel servizio sanitario. Non solo il padre, ma anche la madre, cattolica praticante, voleva dissuaderla da questa decisione. “Se fossero altri tempi - ammoniva la madre - ben volentieri ti darei il mio consenso; ma adesso, mentre vogliono chiudere i monasteri, l'avvenire sarà duro per una ragazza”. Vera, però, era persuasa che quello che sentiva nell'anima non poteva essere che la chiamata divina. Non si trattava della fuga dalla vita, né di una delusione, né di spirito di avventura, né di qualsiasi vantaggio che avrebbe potuto influire sulla sua decisione. Vi era soltanto il desiderio di donarsi al suo ideale. Proprio quando non offriva nessun vantaggio, nessuna garanzia; appunto quando i meno coraggiosi avrebbero potuto titubare o addirittura disertare». Guardate che è forte questa affermazione e qui vogliamo fermare un po' la nostra meditazione. Questa ragazza, laureata in medicina, si offre in un momento in cui l'offrirsi voleva dire pericolo anche della vita. Ma si offre al suo ideale. Ha un ideale davanti: il divino maestro, la consacrazione totale al divino maestro, servire i fratelli, cioè servire Gesù nei fratelli. Mi pare che qualche cosa di simile si verifica anche per noi, e non so se sia più difficile offrirsi al Signore per i nostri fratelli oltre cortina o per noi. Infatti questa ragazza, dal momento che esaminiamo la sua storia, sa che per offrirsi al Signore deve offrirsi a un ideale e resistere a qualsiasi difficoltà, cioè deve essere preparata a tutto.

MI318,3 [26-08-1970]

3. Quando Zeno , per prendere l’esempio di uno dei più anziani qui presenti, non certo dei più vecchi, ha abbandonato il mondo per venire tra noi, ha dovuto fare qualche cosa del genere. Ha dovuto dire: “Io lascio una certa posizione, una certa strada nel mondo che mi offre certe possibilità, una certa garanzia. Non è che io sia un fallito; non abbandono il mondo perché “zappare non ho la forza, mendicare mi vergogno, so io che cosa fare, mi faccio frate”. No! “Ho una posizione, la lascio per un ideale, per un ideale”.
Ricordatevi che il giorno che questa giovane lascia il mondo per un ideale si mette nettamente in una posizione di contrasto con tutto quello che è il mondo comunista, ed è subito oggetto di persecuzione. Non c'è niente da fare! Lei conosce già le difficoltà alle quali va incontro. Oggi, quando noi abbandoniamo il mondo, che può essere quello della nostra città o del nostro paese, per darci a Cristo, noi entriamo in una Famiglia religiosa dove è necessario lo stesso taglio netto, veramente deciso, per una donazione totale ad un ideale. Il pericolo è che nel mondo dove noi viviamo si finisca per essere allo stesso tempo comunisti e religiosi. Nei paesi della cortina di ferro sarebbe inconcepibile essere comunisti e religiosi, mentre nella nostra situazione è possibile conservare ancora il ponte fra quello che si era e quello che si è, e cioè alleggerire un po' la nostra offerta, diminuire il fuoco del nostro ideale restando con un piede nel mondo e un piede nella vita consacrata. Invece noi dobbiamo necessariamente fare un taglio netto con il mondo, con tutto quello che sa di mondo, con tutto quello che è attrattiva di mondo, altrimenti non siamo religiosi. Se non ci siamo donati interamente al nostro ideale, pur vivendo poi in mezzo alle realtà del mondo, cioè usando le cose del mondo, non siamo veri religiosi. Noi ci troviamo adesso in un Istituto dove non c'è la miseria, dove abbiamo la possibilità di usare la macchina, la possibilità di usare i mezzi moderni. Però la nostra donazione deve essere totalitaria all'ideale, e le cose devono soltanto essere un mezzo, ma veramente un mezzo. Qui c'è il pericolo enorme che si voglia star seduti su due sedie, mettere una mano di qua e una mano di là, un piede di qua e un piede di là: state attenti che per noi c'è questo enorme pericolo. A un dato momento noi possiamo illuderci di essere religiosi, credere di aver offerto noi stessi al Signore, credere di aver dato tutto al Signore, e invece ci siamo dati proprio molto e molto poco al Signore. Questo ideale che spinge oggi le persone che vivono nei luoghi di persecuzione deve essere un ideale molto forte, perché altrimenti non è capace, non è sufficiente, per portarle avanti, per dar loro la forza di sostenere la persecuzione. Ma vorrei dire che è necessario un ideale ancora più forte per noi, perché non siamo stimolati dai persecutori. A un dato momento noi possiamo diventare degli uomini peggiori degli altri, perché almeno uno si è formato una famiglia, ha un ideale familiare, ha un ideale almeno di un benessere familiare, mentre noi finiamo per essere degli eterni scapoli non consacrati a nessuno. Dopo aver aperto il tema io cederei la parola al nostro carissimo padre Ugo, il quale ha detto che da questa mattina parla in italiano, o in dialetto, e continua un pochino la conversazione su questo tema dicendo le sue impressioni. A te, padre Ugo.

MI318,4 [26-08-1970]

4. Don UGO CALDINI: “Non parlerò in forma professorale, ma come un buon fratello, in modo che possano parlare anche gli altri se qualcuno vorrà aggiungere qualcosa. Tenterò di parlare in italiano perché bisogna allenarsi.
Quello che dice don Ottorino io l'ho visto con i miei occhi in più di un religioso in Guatemala. Non parlo dei miei confratelli, ma di religiosi che, magari, si sono stancati. Perché in quell'ambiente dove siamo noi, siamo messi a prova da un mondo pagano, che non apprezza per niente né il voto di castità, né tanto meno quello di obbedienza. Forse perché continuamente tentate di fare l'altalena tra Dio e il diavolo, si vedono persone sempre indecise, mai contente, insicure, anche umanamente parlando. Si vedono in loro le conseguenze di una donazione non totale al Signore. È gente che sembra non aver capito che le difficoltà della vita ci sono dappertutto. Anche nella nostra Comunità, dove qualche volta nascono dei piccoli problemi, vedo che, grazie a Dio, sia perché siamo giovani e ci mettiamo tutti alla pari, sia perché nessuno di noi fa l'uomo delle risoluzioni, le difficoltà si possono superare. Però qualche volta queste difficoltà sorgono proprio perché uno non è pronto e preparato a portare il peso della sua consacrazione, e vorrebbe avere dei conti aperti con gli altri. Di lì a volte cominciano i guai che finiscono in fretta, però resta vero che cominciano. Se invece ci siamo donati al Signore io penso che dobbiamo essere totalmente del Signore. Non dico che qui ci sia un santo che vi parla, per cui dovete aprire occhi e orecchi, però con la coscienza di ciò che significa, pur nei limiti delle nostre debolezze, non credo che il nostro ideale sia impossibile. Il che significa avere coscienza chiara che Dio ci ha chiamati, nel posto dove siamo, a portare i pesi, se ci sono pesi da portare, e anche a godere quando c'è da godere, della fraternità. E quindi non bisogna mai tirarsi indietro con il Signore dicendo: “Sì, Signore, vorrei, però...”. O come diceva un padre venuto da noi dagli Stati Uniti: “Questo vescovo mi ha dato una parrocchia che non mi piace, e io vado a cercare un altro vescovo”. Il che è cercare la sedia comoda. Poi succede che anche la sedia comoda ammacca, perché è una sedia e ha i suoi difetti. Quindi è importante sapere che, quando uno si è dato al Signore, non deve fare un passo indietro, in qualunque situazione si trovi. E poi, se uno ha una statura di uomo, come dicevo ieri sera ai diaconandi, certe piccole difficoltà si risolvono a tu per tu, non alle spalle, e allora si minimizzano, perché il problema di cui si è parlato è un problema anche risolto. Ma anche se non si risolvesse, il dire a un altro: “Ci sono certe braci tra me e te, coperte dalla cenere, e il vento ogni tanto le scopre...” sarebbe scaricare sugli altri dei disagi che, in fondo, sono solo personali. Non devo affrontare il problema della vita religiosa, che è un problema da risolvere tra me e Dio, incolpando gli altri, siano superiori o situazioni che non piacciono o che so io. Non c’è nessuna scusa per dire: “Sono un fallito per colpa di fattori esterni a me”. Non possiamo dire: “Io non ho potuto realizzare la mia vita di religioso perché ho trovato ostacoli dappertutto e a un certo momento non ce l'ho più fatta”. Gesù Cristo ha trovato l'ostacolo maggiore in una croce ed ha avuto paura anche lui, ha tremato ed è andato avanti. Quindi direi: non abbiate paura delle difficoltà, quanto piuttosto di questo traballare, di questo mettere sempre di nuovo in discussione se si è fatto bene o no a consacrarsi a Dio nei momenti in cui si trovano nella vita religiosa problemi, difficoltà, ostacoli. Consacrarsi a Dio significa anche superare gli ostacoli da consacrati, senza rimpianti e senza dirsi di continuo: “Ma guarda che guai mi capitano! Chissà cosa avrei potuto fare da qualche altra parte...”, perché con questo si è già fatto una discussione con il Signore, come dire: “Signore, mi sono consacrato a te, però speravo che anche tu comprendessi il mio sacrificio e mi ricompensassi un poco. Invece anche tu mi metti pali tra le ruote, e se continui così, guarda che mi stanco”. E mi pare che dire questo al Signore sia piuttosto ingrato. Non so, ma... ho espresso il pensiero...”.

MI318,5 [26-08-1970]

5. Molto bene. Chi deve parlare ora? Zeno?
Don ZENO DANIELE: “Pensavo, e ne parlavo ieri anche a don Ugo, a monsignor Botek che abbiamo avvicinato l'altro giorno, e al fratel Vito che era con lui. Mi sono domandato anche l'altra sera, dopo una conversazione piuttosto lunga con loro in refettorio: se noi avessimo passato la prova che hanno passato loro, saremmo ancora così pieni di entusiasmo per questa attività che loro stanno svolgendo, per esempio, di introdurre con tanta pazienza libri religiosi nella loro terra, dopo vent’anni e più che sono fuori? Io penso che, senz'altro, alla base c’è una grande capacità di sacrificio: si vede ancora l'impronta dell'uomo, di un uomo che ha affrontato il sacrificio... che crede da sempre... che è impastato di sacrificio, di spirito di sacrificio, e anche di una vera preparazione...”. Umanamente parlando potrebbe sembrare quasi un fallito, perché era a capo dell'Azione Cattolica regionale. Era un uomo già affermato... ed è scappato attraversando un fiume a nuoto per duecento metri. Umanamente parlando sembrerebbe un fallito, ma nonostante tutto lui continua: se può dare cinque talenti, dà cinque talenti. Don ZENO DANIELE: “Anche il fratello laico della congregazione del Verbo Divino che era con lui mi ha colpito. Le loro Comunità sono state sciolte e ora non possono trovarsi più di due. Lui ha dovuto imparare un mestiere: poteva fermarsi nella sua patria ad esercitare una professione ed invece ha preferito aggregarsi alla Comunità di Vienna, dell'Austria, e da Vienna l'hanno chiamato in Italia perché può essere di aiuto... Continua ad essere religioso, e lo diceva anche monsignore, con lo spirito della sua congregazione. L'abbiamo visto anche qui, in questi giorni, con la sua corona in mano, a pregare. Sono persone che hanno sofferto veramente. Conversando insieme hanno confidato che sono stati scovati di notte nei loro Istituti, sono stati incarcerati, sono stai processati... hanno passato dei momenti... E continuano una attività apostolica intensa, ed impegnativa, dove c'è bisogno anche di entusiasmo... Mi pare che c'è da domandarsi come hanno potuto sostenere una prova così... Penso perché è gente, e si vede anche a prima vista, formata nel sacrificio... gente semplice, ma soda”. C’è qualcuno che si sente ispirato dallo Spirito Santo? Mi sembra don Matteo: coraggio, don Matteo! Giuseppe, tu che ritorni dall’ospedale? Don Girolamo? Don GIROLAMO VENCO: “Io penso che in certi momenti della nostra vita noi avremmo, forse, energia e volontà per fare queste azioni, per così dire, eroiche, ma credo che il pericolo più grave sia quello che ci ha indicato don Ugo: in Guatemala c'è gente che non apprezza, per esempio, la castità. Qui invece noi abbiamo altre cose, mi pare, che continuamente ci sollecitano, che ci mantengono continuamente in tentazione. Non so, ma penso che sia quel certo benessere che c'è dappertutto, che ci mette nella tentazione di adeguarci al benessere degli altri, cioè di avere tutto quanto, e di arrivare a uno stile di vita contrario a quello richiesto dalla consacrazione. Il pericolo nostro è di essere continuamente, in ogni momento, martellati da questa tentazione; meno forse dalla tentazione dell'obbedienza, ma più da questa tentazione di essere come gli altri, sia nel vestito, sia nel modo di ragionare, sia nel modo di usare le cose, a tal punto che diventiamo insensibili alle cose di Dio”. Direi quasi, don Girolamo, che qualche volta, c'è il pericolo di crederci non preparati all'apostolato perché non si è provato tutto quello che è del mondo. Che cosa ti pare? Don GIROLAMO VENCO: “A me ha fatto impressione un benzinaio di Milano, mentre tornavo dall'aeroporto, che mi diceva: “Io incomincerò ad andare in chiesa quando voi sarete sposati, perché allora mi capirete veramente...”. Io gli ho risposto: “Dovrei, allora, andare in prigione come sei andato tu, per capire i carcerati, per capire quella situazione?”. C’è il pericolo, alle volte, che noi crediamo giustamente che dobbiamo provare tutto quello che provano gli altri”. Invece dovremmo far provare agli altri quello che noi proviamo. È chiaro? Noi dobbiamo provare la gioia di una vita consacrata, di una vita offerta interamente al Cristo, vissuta totalmente per i fratelli; e far provare agli altri la gioia di vivere da buoni cristiani, di vivere da buoni papà, da buoni figli, da buoni sposi, da buone spose. Dobbiamo avere coscienza della fonte della nostra gioia, e trasmetterla anche a loro. Che cosa volevi dire Ugo? Mi pare che Ugo volesse dire qualcosa. Dilla forte perché don Zeno è sordo. Daniele, che cosa avevi? C'è qualcuno che non ha il coraggio di parlare? Giorgio, coraggio, anche se avete da protestare. Ò

MI318,6 [26-08-1970]

6 Ieri sera, leggendo il famoso libro , ho trovato che il Signore stava andando verso il mare perché aveva deciso di andare verso il mare; e gli altri hanno detto: “Ah! Giovanni sarà contento perché è il suo mare”. Infatti lui godeva nell’attraversare il mare, nell’ammirare il mare, e dal mare usciva con pensieri spirituali. Gesù disse: “Adesso Giovanni sarà tutto felice di andare verso il suo mare, perché guardando il mare pensa alle anime, pensa alla sua missione...”. E San Pietro e tutti gli altri hanno ripetuto la stessa cosa. Allora San Pietro ha preso a braccetto Giovanni e gli ha detto: “Giovanni, dimmi come riesci davanti al mare ad avere tutti i bei pensieri che hai. Io sono andato tante volte in acqua, ma ho trovato solo pesci: io vedevo solo acqua e pesci, e tu sai che io sono vissuto tutta la vita sopra la barca e in mezzo all'acqua. Io vedevo solo pesci, acqua e pesci, e pensavo ai soldi che avrei preso per acquistare il cibo di ogni giorno; non vedevo altre cose oltre a questo. Non so neanch'io... non so neanch'io”. E allora si è avvicinato il Signore e ha chiesto: “Di che cosa state parlando?”, e glielo hanno detto. E Gesù: “Eh, caro Pietro, ci vuole lo Spirito di Dio che fa vedere qualcos’altro oltre il mare”.
Mi riallaccio a quello che diceva Ugo. Penso che noi dobbiamo veramente coltivare l’unione con Dio, sentire la presenza dello Spirito di Dio, intensificare l’offerta di noi stessi a Dio. Solamente allora, davanti al mare, vedremo qualcosa oltre che la barca e i pesci, cioè vedremo nelle cose, negli avvenimenti della vita, nelle persone, le anime oltre che il corpo; vedremo negli avvenimenti il passaggio di Dio oltre che la cattiveria degli uomini che qualche volta ha provocato quegli avvenimenti; sapremo dare una interpretazione spirituale, soprannaturale, a tutto quello che troveremo sul nostro cammino. Ti pare giusto, caro don Ugo? Ma per fare questo ci vuole l’abbondanza dello Spirito di Dio, ci vuole, tornando al tema di partenza, una consacrazione totale al nostro ideale per amore di Cristo. L'amore di Dio ci farà accettare generosamente il sacrificio, la croce, il martirio; ma senza questo amore di Dio, che è donazione, che è un desiderio ardente di far contento il Signore, tutto diventa difficile. Adesso ci siamo incontrati con il Signore nella comunione e possiamo dire: “Signore, io voglio essere tutto tuo: la mia giornata, i miei respiri, i battiti del mio cuore, le mie parole, i miei pensieri, le mie azioni...”. Senza questo fuoco, anche nelle aridità, che ci deve spingere ad essere tutti del Signore, non possiamo vivere la nostra consacrazione: dobbiamo fare l’esperienza della totale adesione al nostro grande ideale.

MI318,7 [26-08-1970]

7. Tante volte sento che qualcuno è un po' avvilito perché non ha fatto esperienze. È naturale che un linotipista desideri fare l'esperienza di linotipista, che un autista faccia l’esperienza dell’auto perché un domani deve guidare l’auto, che un pilota provi a guidare l'aereo perché un pilota deve prepararsi a guidare un aereo e magari un aereo di linea; ma se un pilota, per prepararsi, andasse ad esercitarsi nel canottaggio, farebbe una bellissima cosa, ma un domani dovrà salire su un apparecchio e prendere la leva di comando. Ricordatevi che il nostro pilotaggio è guidare le anime a Dio. Quando si presenterà un'anima, noi dovremo metterla in rotta verso Dio: potrà essere un bambino, un vecchio, una mamma, un papà, che devono raggiungere Dio. La nostra missione speciale, la nostra specializzazione, è prendere le anime e metterle in rotta verso Dio. Se noi non siamo degli specializzati essendo noi per primi in rotta verso Dio, figlioli miei, cambiamo mestiere, cambiamo mestiere!
Se domandiamo a don Ugo: “Che cosa sei andato a fare in America?”, lui mi risponde: “Sono andato a mettere le anime in contatto con Dio”. Non c'è niente da fare! È giusto o no? “Sono andato a metterle in rotta verso Dio”. Questa è la nostra specializzazione; di questo dovete essere preoccupati. Non dite: “Io vorrei fare l’esperienza di andare all'estero, altrimenti arrivo impreparato. Dovrei fare quell’altra esperienza...”. Questa è l'esperienza, figlioli, che dobbiamo fare; in questo dobbiamo essere esperti. Ricordate che il demonio è furbo, è tremendo, e cercherà di mettervi in testa proposte seducenti, cose che il mondo naturalmente vi suggerirà perché è logico che l'uomo che non è di Dio vi dirà: “Tu, per essere preparato come prete, dovresti sapere questo, dovresti sapere quello”. Certe riviste che sono scritte da uomini che sono colti, ma non sono di Dio, è certo che non le diranno mai queste affermazioni. Perché? Perché non le hanno mai provate, non le conoscono e non le capiscono. È inutile che sia maestro di chirurgia un macellaio. È chiaro? Un macellaio non potrà mai essere maestro di chirurgia; deve essere un chirurgo. E allora voi, se volete diventare veramente maestri di anime, andate ad attingere al Vangelo, alla Sacra Scrittura, alle vite dei santi, ai trattati di ascetica, e soprattutto con le ginocchia piegate dinanzi al tabernacolo, e chiedete a Gesù, con l'intercessione della Madonna, che vi mandi lo Spirito Santo. E sarà lo Spirito di sapienza, lo Spirito di Dio, che a un dato momento, entrando dentro di noi, vi farà cambiare testa. Gesù, il divino maestro, a un dato momento neppure lui sapeva che cosa fare con i suoi Apostoli: “Beh, sentite, verrà lo Spirito Santo, metterà lui a posto le cose. Verrà lo Spirito Santo”. È quello che io sto constatando anche nella nostra Famiglia religiosa: io ho fatto una piccola, una cattiva copia di Gesù, e ho detto tante cose, e a un dato momento si nota che qualcuno le fa proprie. Come fa Fernando a capire certe cose improvvisamente se fino all'altro giorno le ho ripetute cinquantamila volte? Finalmente è arrivato lo Spirito Santo! È questo l'augurio che io vi faccio: la Madonna ci ottenga a un dato momento lo Spirito Santo, e lo Spirito di Dio ci faccia capire che cosa vuol dire consacrarci interamente al nostro ideale. Allora avremo gli uomini, che prima erano pieni di paura, che salteranno sopra i tetti e che avranno un solo scopo, un solo programma, un solo desiderio: amare il Signore, farlo conoscere, farlo amare “in saecula saeculorum. Amen!”.