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LA TRISTEZZA NON È VIRTU’ APOSTOLICA

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2 ottobre 1970

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1. Entrando in una certa casa di formazione, un giorno, ho visto una scritta: “La tristezza non è virtù apostolica”. Pensando che oggi avremo un motivo di tristezza, perché è l'ultimo incontro che abbiamo in questa sede con il nostro caro don Ruggero, penso che valga la pena far la meditazione su questo tema per tenerci un pochino su di tono, vuoi chi parte e vuoi chi resta, e con questo diamo un saluto al nostro carissimo amico.
Penso che non valga la pena di dirglielo, perché chissà quanto l'avrete detto voi, che lo ricorderemo e che lo seguiremo. Gli facciamo solo l'augurio che laggiù possa ricevere gli esempi di santità che non ha potuto ricevere qui, e che dia una testimonianza del suo amore verso Gesù e verso la Madonna come lo desiderano in Paradiso. Mi sembra che questo potrebbe essere abbastanza. Ad ogni modo verremo a trovarti laggiù, e se non sarai come vuole il Signore, c'è vicino un fossato che si chiama Ionico: ti faremo fare tre o quattro bagni tenendoti una mezz'oretta o un'oretta sotto acqua.

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2. Il nostro tema, allora, è quello della tristezza. Che cos’è la tristezza? Io la definirei una perdita di gas che paralizza la vita spirituale, toglie il sorriso e impedisce l'azione; una perdita di gas diabolico, naturalmente.
Immaginate che ci trovassimo a Bosco, riuniti in una stanza, pieni di gioia, con un mazzo di carte, una bottiglia di Cirò davanti e una di Girolimino dall'altra parte. Marco fa già un sorriso... Beh, qualcosina d'altro ancora di fianco. Siamo contenti e sereni, stiamo cantando e giocando, dopo aver premesso una mezz'oretta o un'oretta di conversazione sulle cose nostre. Improvvisamente notiamo che uno diventa serio e gli chiediamo: “Che hai?”, e lui risponde: “Non so neanch'io, non so neanch'io, ma sento un malessere”. La causa è una perdita di gas, di un gas inodoro per cui nessuno se ne accorge: improvvisa, lenta e progressiva. Tu vedresti smorzarsi improvvisamente il sorriso, e a un dato momento non ci sarebbe più voglia di giocare. Qualcuno si sederebbe da una parte o dall'altra, e a un dato momento si arriverebbe alla morte... a meno che prima qualcuno non apra la finestra, altrimenti si arriverebbe alla morte. Ricordo la notte che monsignor Fanton, allora don Carlo Fanton, venne a bussare alla mia porta, ad Aracoeli, gridando: “Ah, muoio! Ah, muoio! Ah, muoio!”. Accorsi subito saltando giù dal letto in fretta e furia, e lo vidi con la finestra e la porta spalancata e lui, anche se era inverno, era con la testa sporgente dalla finestra. A poco a poco cominciò a riprendersi, e mentre prima stava per morire asfissiato ora stava per morire dalla paura. Era capitato che aveva lasciato aperta la porticina della stufa a legna e durante la notte, a un dato momento, si è sentito mancare il respiro. Allora è quasi caduto in terra perché non era capace di stare in piedi; finalmente è riuscito ad aprire la finestra e a prendere coraggio; quando ha cominciato a prendere coraggio ha chiamato aiuto... quando cioè “i ladri erano già scappati via”. Penso che il gas provocherebbe qualcosa di simile, e qualcosa di simile avviene in noi quando ci prende la tristezza. A un dato momento, spiritualmente, non si progredisce più; a un dato momento non si sorride più perché non c'è quella gioia che ci dovrebbe essere; a un dato momento non si ha più la forza di fare le azioni abituali

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3.Portiamo un esempio pratico per scendere al concreto. Vedo don Zeno che sorride e allora lo prendiamo come esempio. A un dato momento stiamo passando per il centro della città insieme con il nostro caro ragioniere Adriano: stavamo andando da Soprana per prendere una sveglia per poter svegliare Vinicio, e vediamo Zeno proprio davanti al caffè Garibaldi, seduto su un gradino. Sapete qual è il caffè Garibaldi? Si trova proprio nella piazza dei Signori. Raffiguratevi dunque il nostro caro Zeno, seduto su un gradino come un poveretto, in atteggiamento quasi di uno che domanda l’elemosoina. Ci avviciniamo e gli chiediamo:
“Zeno, perché sei seduto qui?”. “Ah!”. “Ti senti poco bene?”. “No! No!”. “Hai qualche problema?”. “Dovevo andare da Maltauro, ma ho pensato che forse non c'è”. “Va bene, e se non c'è ti fermi qui? Forse si trova in casa; io gli ho telefonato poco fa”. “Sì. Ma allora chissà quante persone ci sono e quanto tempo mi farà aspettare”. “Hai altro da fare?”. “Sì, dovrei d'andare da Galla a prendere i libri, ma ho pensato che li ho presi anche l'anno scorso e i ragazzi li hanno studiato poco, e inoltre dopo li rovinano per niente”. “E hai altro da fare?”. “Dovrei andare in curia per prendere dei documenti che mi ha chiesto Antonio Bottegal, ma c’è sempre la solita burocrazia; io non sono capace di capire quelle cose, sono stupidaggini”. “Insomma, hai altro da fare? Niente?”. “Sì, dovrei andare a farmi visitare a San Felice, ma le medicine non servono a niente...”. “Insomma, sai che cosa devi fare? Qui vicino c’è l’ufficio funebre del comune: va' e prenditi un loculo del cimitero, e mettiti dentro”. Colui che è triste è veramente così: depresso e incapace della più piccola reazione. A un dato momento non prega più. E non ha la minima volontà per lavorare nel campo spirituale, non gli interessa salire, comincia l'esame di coscienza e subito lo lascia. Era partito con una certa regolarità con il padre spirituale, ma a un dato momento si ferma, si blocca e non va più avanti. Anche le pratiche di pietà vengono ridotte al minimo possibile, quanto è sufficiente perché gli altri vedano che le fa; non c’è un gesto di generosità. Vorrei dire, se volessimo cercare una immagine, che si potrebbe paragonarlo a una persona tisica, a uno che è affetto dalla tubercolosi e che sta per morire per la tisi: non ha forze e non ha energie. La tristezza porta a tale situazione. Pensate a Zeno seduto su un gradino di pietra in piazza dei Signori: uno che è triste si mette in quelle condizioni.

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4. Quando uno diventa triste? Qual è la causa per cui uno diviene triste? Per conto mio la causa è perché uno non ha un ideale, non ha una meta. Vorrei dire che la tristezza si vince con l'amore. Quando uno ha amore, ha carità, vince la tristezza; quando uno manca di carità, di amore, cade nella tristezza e nella depressione.
Poniamo un altro esempio molto concreto. Consideriamo Mariano Bregolato, non Mariano Apostoli, che ha una forte passione per la caccia: si alza presto al mattino, dà da mangiare agli uccelli, li pulisce, prepara l’auto, prepara il capanno anche dopo che gli hanno portato via il fucile, prepara le cartucce e tutto l’occorrente. Non è possibile immaginare che, a un dato momento, mentre sta preparando gli uccelli e allestendo ogni cosa, si metta seduto mogio mogio, senza la minima volontà e senza entusiasmo, a tal punto che sua moglie debba dirgli: “Mariano, va’ a dar da mangiare agli uccelli! Coraggio!”. “Eh, sì...”. “Prepara gli uccelli!”. Siete capaci di concepire che ci voglia la spinta della moglie perché lui prepari il necessario per la caccia? È impossibile! In tal caso la moglie gli direbbe: “Lascia tutto; chi te lo fa fare?”. Al contrario Mariano fa di tutto per non far vedere che è stanco, fa di tutto per non far vedere che gli costa sacrificio. Perché? Perché altrimenti ha paura di prenderle dalla moglie, perché ha amore per la caccia, e allora tutti i sacrifici non contano più. Quando uno è triste? Quando non fa volentieri, quando non ha una meta. Una mamma, che vuole bene ai suoi figlioli, non dirà mai che è stanca, e se a volte confiderà che è stanca la sua è una stanchezza allegra e gioiosa: “Mi costa, non ne posso più alla sera. Ma quando penso a mio figlio, quando penso al mio bambino, dimentico ogni stanchezza”. È una stanchezza accettata con il sorriso: la mamma cade stanca morta alla sera, ma anche nel sonno appare sorridente perché pensa ai suoi bambini.

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5. Nella vita apostolica noi troveremo certamente dei momenti di tristezza, cioè incontremo momenti in cui la tristezza sarà una cosa naturale. Quali sono questi momenti? Tante volte provengono dalla nostra situazione fisica. Per esempio, quando uno ha passato i cinquant’anni comincia a sentire le giornate pesanti come quella di ieri e dell’altro giorno. Don Venanzio riferiva che monsignor Bigarella ha detto che superati i cinquant'anni non occorre domandare quali disturbi uno soffra, ma quali non soffra.
Per esempio, ieri mi ha preso un dolore fortissimo alla testa, un dolore talmente pesante che sembrava avessi dieci quintali sulle spalle; era veramente molto pesante, come se una tanaglia mi stringesse la fronte. In tali circostanze è faticoso mostrare il sorriso. Altre volte sarà a causa della digestione, altre volte ancora per non aver dormito alla notte a causa di un malessere, o di qualche problema. Questi sono problemi fisici ai quali vado incontro io e andate incontro anche voi; non bisogna che ci dimentichiamo che andiamo verso il sepolcro. Voi avete tagliato le piante in cortile perché all’interno erano tarlate. Quando la piantina è giovane, è bella e sana: se io tagliassi uno di voi a metà troverei che è bello e sano al suo interno. Se si taglia un povero vecchio come me si vede che dentro è tutto bacato, ed è naturale che sia così: più si va verso l'età avanzata, più si va verso il sepolcro. Qualcuno può arrivarci prima, qualcuno può arrivarci dopo, e a volte qualche bacillo entra prima per cui muore anche una piantina giovane. Ad ogni modo non dimentichiamoci che andiamo verso il sepolcro, e perciò è inevitabile che il corpo senta il peso della natura umana, il peso dell’età, il peso della stanchezza. La tristezza inoltre può essere provocata tante volte da alcune cause morali, intime. Ecco, ad esempio, la partenza di Ruggero: è sempre vissuto qui per cui sono naturali ora certi strappi, come staccarsi dalle Suore Dorotee dove è stato tanto tempo, staccarsi dalla mamma, staccarsi dall’amica di Rovereto, staccarsi da un amico e dall’altro. È umano, è umano! A volte può essere anche il vedere che non si è capaci di andare avanti spiritualmente, cioè motivi interni come il constatare che ci si sforza di pregare e non si riesce, ci si sforza per vincere se stessi e si continua a cadere negli stessi difetti... insomma, si constata che è difficile e che non si riesce a progredire. È come uno che incomincia a suonare e dopo un po' abbandona tutto perché non è capace di proseguire, o incomincia a fare un saggio e non è capace di riuscire e abbandona tutto. La tristezza trova motivo anche dello scoraggiamento spirituale perché non si è capaci di uscirne fuori o perché è difficile uscirne fuori. Questi sono i motivi che possono portare alla tristezza. Mi sembra che sono i principali, ma ce ne sono anche tanti altri che possono dare motivo alla tristezza.

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6. La tristezza è pericolosissima, è pericolosissima. Inoltre è inevitabile. E può colpire una mamma, un papà, un operaio, un industriale: è inevitabile che incontriamo sul nostro cammino momenti di scoraggiamento. Vorrei dire anzi che quanto più uno fa, tanto più corre il rischio di cedere alla tristezza.
Immaginiamo un industriale che comincia una fabbrica. Se una persona impianta soltanto un'aiola di insalata, beh, insomma, non ha molti motivi per preoccuparsi. Ma se uno comincia un impegno industriale e comincia naturalmente con operai, allora iniziano le difficoltà, ci sono le fatture da pagare e tanti altri problemi: più grande è l'industria, più c'è motivo per trovarsi in momenti di tristezza. Così accade anche a chi vuole salire spiritualmente: più sale spiritualmente, più fa un'industria grande spiritualmente parlando, e più il demonio lo tenta, e perciò avrà più motivi per la tristezza. Perciò non state ad illudervi. Un Santo Curato d'Ars aveva certamente più motivi di tristezza di un altro parroco con una parrocchia di diecimila anime. Perché? Perché più uno vuole salire, più sarà bersagliato dal demonio, e il demonio sa che la tristezza è un punto dove si può insistere, dove lui può lavorare: è un punto debole. Sarebbe come quella famosa foglia che cadde sulla schiena dell’uomo invulnerabile e nel cui punto è possibile colpirlo. Perché? Perché nel momento in cui uno si trova un po' triste desidera la gioia, sente il bisogno della gioia che gli manca. La tristezza infatti è mancanza di gioia. E allora si presenta il demonio e dice a Ruggero: “Ruggero, Ruggero, guarda, guarda; ricordi?”. Lui comincia a guardare a Crotone e vede solamente tristezza; comincia a guardare le Suore Dorotee e vede tristezza perché non può più andarvi; comincia a guardare a Rovereto e vede tristezza; tutto è tristezza. E allora il demonio gli presenta quella ragazza che un tempo era oggetto dei suoi primi amori santi e ideali, come quello del sommo Dante per Beatrice, e gli suggerisce: “Ricordi i tempi quando andavi a scuola? Ricordi, ricordi... Che bei tempi!”. Non trova gioia in nessuna parte perché tutto il panorama si è oscurato, e allora comincia a pensare: “Che bello era quel tempo, che bello era quell’amore, che bello...”, finché a un dato momento nasce il bambino. Ricordatevi che tanti peccati mortali intimi nascono da questo stato d'animo. Permettete che vi ripeta questa affermazione: tanti, tanti peccati mortali nascono in questo momento di tristezza, momento in cui ricevi un dispiacere da uno, dall'altro e da quest'altro, e invece di rifugiarti nel Signore vai cercando consolazioni umane. E proprio in quel momento si presenta a te il demonio, gioca sul tuo bisogno, sul tuo stato d'animo, sulla tua debolezza, sulla tua superbia e ti porta al peccato mortale. Guardate che tanti peccati mortali di anime consacrate e di sacerdoti sono partiti da un momento di tristezza.

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7 Che cosa dobbiamo fare per non avere la tristezza in noi? Mi pare che per non avere la tristezza bisogna avere tanta fede, tanta fede, perché senza fede, è chiaro, si è deboli. Anche gli Apostoli a un dato momento hanno pregato poco e sono scappati via. È chiaro che, a un dato momento, se noi non abbiamo fede, se non partiamo dalla fede, viene la tristezza. Sono necessari fede ed entusiasmo, e anche passione, amore. Parlando prima di Mariano, il cacciatore, sottolineavo che lui ama la caccia, ha una passione per la caccia. Noi dobbiamo avere la stessa passione, una vera passione per le nostre azioni, e farle con amore; allora non cadremo mai nella tristezza.
Io mi metto davanti a Dio, e dinanzi a lui esamino la mia giornata. E il Signore mi dice: “Coraggio!”, e con lui programmo ogni attività, non seguendo il mio capriccio. Oggi, per esempio, io dovrei andare da Maltauro, poi da Galla a prendere i libri, poi in curia per quell'altro impegno, e infine a fare una visita a San Felice. Va bene! Uno, due, tre, quattro... sono i lavori che dovrebbe fare Zeno oggi. Va bene! Tan, tan, tan, tan! Allora vado da Maltauro, e mi assale un momento di preoccupazione: “Oh, mamma mia, adesso vado là, chissà quanto tempo dovrò aspettare!”. Eh, pazienza, che cosa vuoi fare? A me è capitato ultimamente, mentre dovevo andare a chiedergli un aiuto. Mi capita a volte questo senso di angustia, per strada, mentre sto andando, e allora entro nella chiesa dei Servi a pregare un momentino per prendere coraggio. Non mi siedo davanti al caffè Garibaldi, ma vado a pregare e dopo riparto, e tante volte l'ho trovato. Se non lo avessi trovato, pazienza! Eventualmente entro nella chiesa di Santa Corona o in qualche altra parte un altro momento per prendere coraggio e avanti. Io metto in preventivo prima di partire che la missione, cioè le azioni che devo compiere mi vadano storte tutte, e dopo aver fatto il giro per tutta la città pazienza! Io le ho esaminate e programmate dinanzi a Dio con un certo entusiasmo, e parto con il sorriso: che riescono bene o male, io ho fatto il mio dovere. Lui, lui, il mio Gesù è contento di me. L'Eterno Padre non ha rimproverato Gesù perché è morto sopra la croce, perché ha avuto un fallimento al momento finale. Almeno a me questo non consta e non so come la pensino oggi i teologi. Gesù non ha ricevuto alcun rimprovero: “Che cosa hai fatto? Ti sei lasciato prendere; dovevi scappare via. Non vedi che fiasco hai fatto!”. Non penso che sia accaduto così. Che cosa ne dici, don Ruggero? Gesù ha fatto la volontà del Padre, e bene o male ha ricevuto la ricompensa del Padre sia nel momento del miracolo come nel momento della crocifissione, cioè dell'apparente sconfitta. Non c'è mai sconfitta nelle nostre azioni apostoliche quando le facciamo per amore di Dio.

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8. Adesso stiamo cercando di programmare la produzione di audiovisivi catechistici. Se anche dovessimo fare un fiasco di quei solenni, ma proprio di quei solenni, sprecando soldi inutilmente e perdendo tempo e forze, qualora noi ci fossimo sforzati di fare la volontà del Signore, non c'è motivo di tristezza per nessun motivo. Anche se dovessimo poi vedere i pezzi dei filmati sparsi per il cortile, quando il lavoro è stato fatto per amore di Dio non deve essere motivo di tristezza. Pazienza, che cosa volete fare? Abbiamo forse cercato il nostro capriccio?
Io dovrei essere triste, sotto un certo punto di vista, anche se ci fosse il trionfo, se avessi cercato me stesso, se avessi cercato la soddisfazione personale, se avessi cercato di realizzare quella cosa per motivi umani. Allora sì, anche dinanzi a un trionfo, dentro di me dovrei sempre sentire qualcosa che non va perché ho cercato me stesso, non ho cercato Dio. Ma quando io ho cercato di pensare le cose dinanzi a Dio e sono partito nel suo nome e cerco di camminare con lui, non c'è motivo di tristezza, sia che l’impresa vada bene o vada male. Ci sarà certamente un motivo di dolore, se le cose vanno male. Quando, ad esempio, se ne è andato Ragno, chi non ha sentito un dispiacere? Dispiacere è una cosa, tristezza è un'altra. Bisogna saper accettare dalle mani del Signore il dispiacere che un fratellino, sulla cui vocazione si faceva affidamento, a un dato momento dica: “Non mi sento di andare avanti”. Ma questo lo sentì anche Gesù quando vide il giovane ricco andarsene : il dispiacere non è tristezza. Io direi che una cosa importantissima è state attenti perché questo pericolo lo abbiamo tutti, tutti e tutti. Anche i più grandi santi si sono trovati in questa tentazione tremenda, che è veramente il gas del demonio che paralizza la vita spirituale, mette in pericolo di peccati mortali, toglie il sorriso nel lavoro, e porta via la capacità di agire, l’entusiasmo per operare. Per vincere questa tremenda tentazione personalmente non vedrei che questo rimedio: amare tanto il Signore e lavorare solo per lui, senza la preoccupazione di trionfi umani o di altri motivi umani, solo per lui. E allora il santo non è mai triste. Allora corrisponde a verità la frase che abbiamo visto in quella casa: “La tristezza non è virtù apostolica”. E allora è giusta anche quell'altra frase che dice: “... e per tutti abbi un sorriso”. Anche se si è appena ricevuto una sconfitta, si è capaci di sorridere. Perché? Perché si è capaci di fare la volontà di Dio in quel momento.

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9. Questa è anche la conclusione di questa meditazione, e poi, se volete, vi lascio qualche minuto per manifestare qualche vostra osservazione, perché ho preparato un po' in fretta questo tema e posso aver lasciato molti vuoti. Non è vero, don Guido? Ma una cosa che mi sembra veramente necessaria per tutti noi è questa: dobbiamo mettere un certo entusiasmo nelle nostre azioni. Supponiamo, ad esempio, che il Signore ci faccia capire che oggi bisogna vendere un pezzo di terra a Quinto o sistemare un pochino il cortile o dare il colore al corridoio: per me è indifferente l’una o l'altra di queste azioni, anche se, umanamente parlando, posso provare un piacere nell’eseguire una e un sacrificio nel fare l’altra. Non importa niente; io devo scegliere quella che piace al Signore, quella che mi pare che sia più conveniente per la Congregazione. Fatta la scelta, non importa che quell’azione mi piaccia o non mi piaccia, sia secondo le mie inclinazioni o contraria alle mie inclinazioni: io devo impegnarmi al massimo come se fosse la cosa più bella e più grande che io devo fare, come se fosse il mio hobby... impegnandomi con tanto entusiasmo come quando c’è un giovane cotto per il calcio e sente che c’è una partita, e allora sprizza entusiasmo da tutte le parti. Io devo avere lo stesso entusiasmo nel compiere il mio dovere.
State attenti. Supponiamo che don Ruggero sia il superiore generale e a un dato momento mi dica: “Don Ottorino, io avrei pensato, se tu non hai niente in contrario, di mandarti adesso nel ricovero di San Pietro come cappellano”. Io posso dire: “Senti, don Ruggero. Ben volentieri, però mi peserebbe un pochino fare le scale perché ormai ho novant’anni, e tu comprendi che mi mancano le forze. Però sono disponibile”. “Sì, ho pensato anch'io a questo problema, ma tutto considerato è forse l'unico modo per liberarci prima di te”. Conclusione: io posso esporre le mie difficoltà, ma alla fine devo obbedire. “Sì... abbiamo già pensato noi del Consiglio... Tu, fai un piacere: vai!”. Basta! Io devo presentarmi al ricovero di San Pietro. Ma non è una bugia dire che vado volentieri, anche se avevo delle difficoltà vere è proprie: adesso ci vado volentieri perché ho capito che quella è la volontà di Dio. Posso dire, esporre tutte le mie difficoltà per andare, anzi ho il dovere di farlo, ma quando il superiore, che mi rappresenta Dio, mi dice: “Ho visto, ho pensato e tu ci vai”, anche se sbaglia a me non importa niente, anche se muoio vent'anni prima a me non importa niente. Io devo andarci con gioia, come fosse la missione che desideravo fin da bambino, anche se invece avrei desiderato un impegno ben diverso. Qualcuno potrebbe obiettare: “Allora è una bugia!”. No, non è una bugia. Io non ho desiderato quell’ufficio umanamente parlando, ma adesso, quando ho capito che è volontà di Dio spiritualmente parlando, io lo desidero e lo desidero ardentemente. Neanche Gesù, umanamente parlando, desiderava salire sulla croce, tanto è vero che si è rivolto al Padre pregando: “Padre, se è possibile, passi questo calice...”. Ma quante volte ha detto di desiderare di salire sopra la croce! Allora c'è un contrasto? No, non c'è il contrasto. Gesù desiderava, desiderava ardentemente fare la volontà del Padre e salvarci, ma fra la volontà del Padre e la natura umana la distanza era grande, per cui la soddisfazione umana era un’altra cosa.

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10.Noi non possiamo pretendere che ci sia il sentimento umano in tutte le azioni che l'obbedienza ci comanda. Noi dobbiamo manifestare le difficoltà che incontriamo, abbiamo il dovere di farlo, ma quando riceviamo la missione di fare una determinata obbedienza dobbiamo tuffarci dentro con tutte le nostre energie, mettendoci tutto il nostro entusiasmo, non impegnando soltanto un po' di noi stessi per quel dato compito, per quella data missione.
Prendiamo, ad esempio, il nostro caro Raffaele: l'abbiamo mandato con i nostri figlioli del seminario minore. Immaginiamo che lui mi avesse detto: “Don Ottorino, non mi sento.... Creda... che non ne ho le capacità. Io non mi sento portato per assistere i ragazzi”. Questo non è vero, ma lo dico per fare un esempio. Io ho tenuto presenti le sue difficoltà, ho parlato con gli altri responsabili, e a un dato momento dico: “Beh, senti, fammi un piacere: va’ là ugualmente”. Nel momento in cui lui va non deve dire: “Eh, bene! Adesso gli faccio vedere io che non sono fatto per questo servizio!”. E impiega metà delle sue qualità, senza alcun entusiasmo, come un operaio e non come un proprietario. È logico che dopo pochi mesi dovrò dire: “Caro Raffaele, vieni qua, vieni qua; mettiamo un altro al tuo posto”. “Perché?”. “Perché non riesci nel tuo impegno”. “È chiaro! Io glielo avevo detto che non sono fatto per questo impegno”. Invece no! Anche se non sei fatto, tu devi metterci talmente la tua volontà, come quando devi fare una cosa che tu stesso hai chiesto, che tu stesso hai desiderato. Se io avessi parlato con Mariano Bregolato quindici anni fa: “Senti, vuoi andare a caccia?”. “Mi faccia una carità, don Ottorino! Non vado a caccia neanche per sogno!”. Adesso invece sembra nato per andare a caccia. Quando la volontà di Dio, che ci è espressa attraverso le circostanze o i superiori, scatta in casa nostra, noi dobbiamo sentirci nati per quel compito. San Francesco Saverio sembrava nato per fare il segretario, come Antonio Bottegal; a un dato momento, perché si è ammalato un altro, è nato per andare apostolo delle Indie. Quante volte troveremo scherzi simili sul nostro cammino!

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11.Credo che è veramente necessaria questa convinzione e questa disponibilità. E state attenti perché la tristezza l'abbiamo sempre in agguato: è sul nostro cammino anche quando siamo noi che partiamo per fare azioni che ci piacciono, e potete quindi immaginare se si tratta di attività che, umanamente parlando, non sono secondo le nostre attitudini, le nostre attrattive, i nostri desideri.
Perciò, fratelli miei, vi esorto a stare attenti quest'anno e a scrivere con caratteri grandi, nell'intimo del cuore, le parole: “La tristezza non deve essere la mia virtù”. Avete altro da dire? Don Zeno? Siete d'accordo? Fate un poco di contestazione. Termino perché il tempo è già passato. Ruggero voleva soltanto dare l'ultimo saluto qui ufficialmente... Avanti!