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LA VITA COMUNITARIA E LA FEDELTÀ AL PROPRIO DOVERE

MI274 [15-04-69]

15 aprile 1969 Meditazione ai Religiosi e ai Novizi della Casa dell’Immacolata. Don Ottorino, prendendo lo spunto dalle delibere del I capitolo generale sulla vita comunitaria, parla della necessità di rispettare il progetto comunitario, insiste sulla correzione fraterna e sul dovere di evitare la critica, sottolinea la necessità di essere fedeli al proprio dovere anche nelle piccole cose. Il testo originale è registrato e la sua durata è di 39’.

Don Ottorino scherza con Giuseppe Biasio, che all’epoca frequentava il 2° anno del corso teologico, e con Adriano Conocarpo, che invece frequentava il 3° anno dell’istituto per ragionieri, i quali vengono annoverati fra la famiglia musicale di don Ottorino, cioè quella degli stonati.

Raffaele Testolin, che all’epoca stava completando il corso liceale, era molto portato per la musica e il canto.

Cfr. Gv 13,15.

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1. 1. La Comunità
Sia lodato Gesù Cristo! Penso che una delle condanne più grandi che si potrebbe comminare ad uno che è stonato sia quella di metterlo insegnante di musica. Non so se tra voi ci sono degli stonati, ma prendiamo come esempio Giuseppe Biasio che non è stonato. Sei stonato? No, vero? Beh, lasciamolo stare. Prendiamo allora Conocarpo, con il quale sono sicuro che non sbaglio perché tu sei della mia famiglia.Supponiamo che un domani ti mandassi a Roma a studiare musica per metterti ad insegnare musica, a suonare, ma anche a cantare e insegnare canto: penso che sarebbe una delle più gravi condanne che potrei infliggere al mio venerabile confratello Adriano. Questo non vale per Raffaele, per il quale sarebbe una condanna mandarlo a studiare qualcos’altro. State attenti! Forse nella vita non vi capiterà di andare a Roma a studiare musica, ma vi capiterà qualche condanna e questa vi capiterà spesso: dover dire agli altri quello che voi per tanti anni avete cercato di fare senza riuscirvi, o perché avete le gambe corte o per il cervello troppo stretto o per cattiveria o per insufficienza di energie... insomma vi toccherà dire qualche cosa. È quello che capita spesso anche a questo povero diavolo che vi parla. E questa mattina, appunto, devo parlare di una certa armonia della quale è difficile che io possa dirvi: “Exemplum... dedi vobis, ut quemadmodum ego feci vobis, ita et vos faciatis”. Non posso dirvi questo, ma d’altra parte il tema lo devo affrontare. Dobbiamo cominciare a trattare della Comunità. Permettetemi che prima vi porti un paragone. Voi sapete che di solito ricorriamo a paragoni un po’ plastici per poter ricordare meglio la verità.

COMUNITÀ

superiore

COMUNITÀ

Don Ottorino si riferisce ai piccoli cuscinetti di gomma che abitualmente si incollavano sotto le gambe delle sedie per evitare i rumori.

MI274,2 [15-04-69]

2
Penso che voi, nei giri che avete fatto in tante parti del mondo, vi siate incontrati qualche volta con un tavolino a tre gambe, con uno di quei tavolini rotondi che si trovano in certi salotti... Se a questo tavolino a tre gambe mancasse una gamba, il tavolino non starebbe in piedi, e se una gamba fosse un po’ più lunga o un po’ più corta si squilibrerebbe tutto e il tavolino non si potrebbe usare comodamente. Basta pensare ad una sedia quando manca solo un cuscinetto di gomma: si prende quella sedia, la si mette da una parte e se ne cerca un’altra perché con quella si sta scomodi; bisogna che le gambe della sedia siano di uguale altezza, perché è sufficiente che una gamba della sedia sia priva di un piccolo cuscinetto perché nella sedia non si stia bene: la sedia sta anche in piedi, ma non si sta comodi seduti sopra.Se invece a un tavolino a tre gambe manca una gamba il tavolino non sta in piedi perché le altre due gambe sono legate alla terza, cioè la stabilità è legata alla terza gamba. Così nell’auto le tre ruote sono legate alla quarta: se una manca, l’auto non può correre e non può essere usata. Come il tavolino è stato pensato con tre gambe e sta in piedi solamente con tre gambe, così noi siamo stati concepiti, pensati e voluti dal Signore per vivere insieme. Non si può pensare a una gamba del tavolino da sola: non si va ad acquistare una gamba di un tavolino, ma un tavolino. Se si entra in un negozio e si vede una gamba, si esclama: “Beh, che cos’è questa?”. “È la gamba di un tavolo”. Però non si porta a casa una gamba, ma il tavolino; la gamba può essere messa da parte, se è tanto bella e posta in un museo, ma la gamba da sola non vale niente.

ESEMPI comunità

Il riferimento è a don Giuseppe Rodighiero, all’epoca nell’anno di noviziato, che aveva studiato per la sua tesi di laurea i mosaici della basilica di Aquileia.

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3.Voi capite che queste benedette tre gambe hanno dei doveri reciproci tra loro. E se noi vogliamo continuare con questo paragone, considerando la nostra Comunità, ognuno di noi deve dare e deve avere dalla Comunità: ha il diritto di avere e il dovere di dare. Le due gambe hanno il diritto che l’altra sia uguale per altezza, che sostenga la sua parte di tavolo, ma anche loro hanno il dovere di essere al loro posto e di sostenere la loro parte di tavolo. Bisogna che noi ci prepariamo alla piccola Comunità apostolica, ma è possibile costruire un domani la piccola Comunità se è entrato in noi il principio che nella Comunità ognuno deve sapere innanzitutto che ha dei doveri verso la Comunità, prima che dei diritti. Quando dico doveri intendo dire non soltanto il dovere di scopare, quando è ora di scopare anch’io devo scopare la mia parte, è ora di fare pulizia, è ora di portare via una cosa, è ora di preparare la tavola, eccetera. Sì, sì, anche lì ci sono dei doveri, ma direi che ci sono dei doveri ancora più profondi che riguardano la qualità, cioè io ho il dovere di essere santo tanto quanto lo esige il mio posto. Non posso più essere quello che ero a casa, non posso più fare una santità mia, individuale, come voglio io, non posso isolarmi, perché io sono in quella Comunità.
È vero che ognuno è diverso... Se noi entriamo nella chiesa dell’Istituto, noi vediamo che i capitelli delle colonne sono uno diverso dall’altro. I nostri professori d’arte potrebbero descriverceli molto bene, però se uno li guarda nell’insieme nota un’armonia meravigliosa, delle linee architettoniche comuni. Non è vero, don Giuseppe, che ci sono delle linee comuni anche se un capitello è diverso dall’altro? Uno che li guarda, in un primo momento non s’accorge della diversità, però vede che sono belli, fatti bene; poi li osserva e vede che sono uno diverso dall’altro. Anche queste tre benedette gambe possono essere diverse l’una dall’altra, ma in una armonia voluta dall’artista, per cui la diversità non toglie niente alla solidità e alla bellezza del tavolo. Non ci devono essere una gamba quadrata e le altre rotonde, una gamba rossa e le altre nere: no, devono essere armonizzate, pure nella loro diversità. Perciò, il vivere in comunità non toglie niente alla vostra personalità, alle doti che il Signore vi ha dato, allo sviluppo completo di voi stessi: non toglie niente! Però ci vogliono delle linee comuni.

COMUNITÀ

corresponsabilità

CONSACRAZIONE santità

COMUNITÀ

unità

nella carità

Spesso don Ottorino, specialmente quando si riferiva alle linee fondamentali della spiritualità, confessava di avere percepito una musica divina, ma di non avere le qualità necessarie per trasmetterla in forma adeguata.

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4. 2. Le esigenze della vita comunitaria
La prima linea comune dev’essere il dovere di fare la volontà di Dio e di dare il buon esempio. Le altre due gambe devono vedere che voi siete al vostro posto: non una gamba staccata dieci centimetri dal tavolo, non una gamba che viene sopra il tavolo o che si abbassa sotto di cinque centimetri, perché altrimenti viene troppo corta o troppo lunga. È fondamentale essere una gamba che è sempre al suo posto, una gamba che si sforza di essere al suo posto, e allora nella Comunità le cose vanno bene. Guai se uno dice: “A me sembra di fare bene così, io faccio il mio dovere e gli altri si arrangino!”. No, non si può dire così, assolutamente, non si può dire una cosa di questo genere! Non si può dire: “Io mi sforzo di fare il mio dovere, io cerco di dire le mie preghiere, di studiare, e che gli altri si arrangino”. Non si possono costruire tavolini mettendo le gambe sparpagliate per la fabbrica, una di qua e l’altra di là: non verranno mai fuori tavolini, non verrà mai fuori la Comunità apostolica. Guardate che fuori guarderanno la Comunità apostolica, non le singole gambe. Non guarderanno i singoli. Sì, il singolo farà, ma il Signore ci ha voluto insieme e vuole che lavoriamo insieme e vuole che andiamo insieme. Io insisterei su questo primo aspetto: non devo farmi una santità ideata da me, perché sono stato chiamato insieme ad altri confratelli e devo sforzarmi di creare una santità collettiva, e perciò devo cercare quello che anche gli altri esigono da me, quello che Cristo esige da me. Nessuno può fare un disegno di se stesso. C’è un artista che ha fatto il disegno del tavolino, c’è un artista che ha fatto il disegno di ogni gamba del tavolino, pure diversa, ma armonica. Perciò, quando considerate la vostra santità, il modo per farvi santi, non potete fare da soli, ma dovete ricorrere per forza al disegno. In una Casa religiosa il disegno l’hanno in mano coloro che Dio ha messo all’ufficio tecnico della Casa, ufficio tecnico che è aperto a tutti perché siamo in una famiglia, ma - viva Dio! - non lo potete fare voi autonomamente. Potreste essere dei grandi anacoreti, se volete essere santi in altri stati di vita, ma non santi in questa Famiglia religiosa se non ricorrete a chi ha in mano il disegno della Famiglia religiosa. In questo momento è uno stonato che sta parlando di musica, se volete, ma deve dire certe verità perché se non le dico io manco al mio dovere. Voi non potete essere gli artefici di voi stessi, non potete essere degli artisti solitari che un domani pretendono di portare un pezzo da loro costruito in uno stabilimento per montarlo. Uno non può mettersi a fare una carrozzeria, bellissima, artistica, e portarla alla FIAT e dire: “Metteteci dentro un motore”. Non è possibile; bisogna che uno lavori in sincronia con gli altri che fanno il motore, perché il motore deve stare dentro nella carrozzeria in modo armonico. Non si può dire: “Porto là la carrozzeria, e adesso metteteci una ruota”, e magari la carrozzeria è alta quindici metri. Che ruota si può collocare? Quella della Fiat cinquecento? È un lavoro che deve essere fatto secondo un progetto comune; tu, facendo la carrozzeria, mettici pure la tua arte, ma hai delle leggi, ha dei punti che devi rispettare e che non puoi fissare da solo.

VOLONTÀ

di DIO

COMUNITÀ

fraternità

ESEMPI testimonianza

COMUNITÀ

confratelli

CONSACRAZIONE vita religiosa

CONSACRAZIONE santità

CONGREGAZIONE fondatore

Don Giuseppe Rodighiero, interpellato da don Ottorino, interviene dicendo: “Ho avuto anche maniera di dirlo più volte e trattarlo con i nostri novizi: dobbiamo veramente entrare nello spirito della Congregazione e, mi pare, lo abbiamo anche ribadito più volte durante il capitolo: dobbiamo assumere lo spirito della Congregazione”.

Don Guido Massignan era all’epoca il segretario generale della Congregazione e il direttore della Casa dell’Immacolata.

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5. 3. La ricerca comunitaria del progetto di Dio
Il primo pericolo quindi è quello che, sentendosi sicuri di se stessi, si cerchi di costruire la propria piccola santità, il proprio piccolo tempio, il proprio piccolo edificio. Questo è un errore enorme, è un errore enorme! C’è il pericolo che uno dica : “Eh, io ho il Capitolo e ho tutte le delibere del capitolo, perciò cerco di vivere secondo le delibere del capitolo e mi costruisco...”. No! Guardate che a un dato momento facciamo tante congregazioni quanti sono gli uomini. Allora non sarà la Congregazione a morire, ma saranno gli uomini che agiscono così a morire. A un dato momento non arriverà più l’ossigeno, a un dato momento non arriverà più la grazia, e per forza centrifuga saranno gettati fuori. L’esempio che portavo un tempo, dicendo che la nave è diretta al porto e che la nave arriverà al porto, lo ripeto, però tutti quelli che sono sulla nave non sono sicuri di arrivare al porto: arriveranno al porto soltanto coloro che saranno preoccupati di realizzare una santità che si armonizza con la santità degli altri. Uno può apparentemente essere anche dieci volte più santo degli altri, per esempio, se ci fosse qui uno che fa tante ore di adorazione, uno che studia e che fa bene il suo lavoro, ma se lavora da solo, io vi dico: vada in un altro posto, si faccia una congregazione religiosa di anacoreti o di apostoli, ma non è per questa Famiglia religiosa, perché non si può assolutamente fare così. E poiché siamo in un regime di fraternità e di libertà, io vorrei adesso domandare a voi che cosa ne pensate di questo. Tu, don Giuseppe, che cosa ne dici? Lo spirito della Congregazione è fatto di piccole cose: non è fatto di coercizione, perché ho detto che c’è una varietà di modi di essere nella Congregazione, ma questa varietà deve essere sottoposta a chi ha il dovere di armonizzare il tutto. Queste affermazioni sono giuste o no? Don Guido, sei d’accordo su questi punti? Mi pare importante aggiungere anche un’altra osservazione. Non si può dire: “Io osservo gli altri e perciò, faccio come fanno tutti”. Scusate, se gli altri sono corti dieci centimetri, non è una scusa per dire: “Resto più corto anch’io”, perché ne risulterebbe un tavolino che non è quello che il Signore voleva, e quando è il momento di venderlo nessuno lo compra perché dicono: “No! Noi lo vogliamo alto 80 centimetri, non alto 60 centimetri”. Non è quindi un motivo sufficiente dire: “Gli altri fanno tutti così”. Non so se sbaglio. Tante volte si sente dire: “E non lo fanno anche gli altri?”.

CONGREGAZIONE Capitolo

CONSACRAZIONE religioso

GRAZIA

ESEMPI comunità

CONGREGAZIONE fondatore

CONGREGAZIONE spiritualità

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6.Amici, per il fatto stesso che vi accorgete che gli altri sono fuori posto, voi siete più fuori posto degli altri. Quando uno si accorge che non è secondo il disegno, deve avvisare gli altri che si allunghino un pochino o che si accorcino perché altrimenti il tavolino verrà scartato, e verrà scartato anche lui. Il pericolo è quello di adeguarsi ad un dato momento: ci sono gli altri che sono dieci centimetri più corti, le altre due gambe sono dieci centimetri più corte, e allora, per una certa armonia, mi metto anch’io dieci centimetri più corto. Quando sarà il momento di vendere il tavolino, quello che l’ha commissionato lo rifiuterà dicendo: “No, io lo voglio alto 80 centimetri e non 60 o 70!”: lo rifiuterà perché la Comunità non è la Comunità voluta, non è il tavolo richiesto, il tavolo commissionato! Qualcuno potrebbe dire: “È per evitare che una gamba sia alta e due siano basse...”. No, se tu ti fossi messo al tuo giusto posto, in quel punto, al momento del collaudo, gli altri si sarebbero accorti che le altre due gambe erano più corte e si faceva a tempo correre in officina e metterle a posto; invece tu hai voluto adattarti agli altri e in officina a un dato momento non ci si è accorti, passando in fretta e furia, che il tavolino non era della misura aveva l’altezza esatta. Buttato in campo apostolico il tavolo viene scartato. Non so se il paragone sia sufficiente o se bisogna spiegarlo. Per conto mio, guardate che è un grave pericolo anche questo, cioè quello di adattarsi alla mediocrità.

COMUNITÀ

correzione fraterna

ESEMPI testimonianza

PECCATO mediocrità

Il riferimento è a S. E. mons. Costantino Luna, primo vescovo di Zacapa (Guatemala), nella cui diocesi la Congregazione aveva iniziato nel novembre 1966 la prima Comunità missionaria oltre oceano.

L’espressione giuridica indica la proibizione di esercitare gli uffici sacerdotali per chi cade in una determinata colpa.

Don Ottorino riprende l’esempio di Adriano Conocarpo, con il quale aveva iniziato la meditazione.

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7. 4. L’importanza della correzione fraterna
Abbiamo detto, per esempio, che in casa nostra non si deve criticare. Monsignor Luna, quando è andato a Zacapa, ha preso i sei preti che c’erano e ha detto loro: “Volete rimanere con me? Se volete andare via, siete liberi di andarvene, ma se volete rimanere con me sarà sospeso “a divinis”colui che critichi dietro le spalle; se abbiamo qualcosa da dirci ce lo diciamo in faccia”. Abbiamo esatta, e così è uscito dalla falegnameria il tavolino che non era della misura giusta, che non detto molti anni fa che una delle caratteristiche essenziali della nostra Comunità deve essere questa: non si dice mai nulla dietro le spalle. Se abbiamo qualcosa da dire ce lo diciamo in faccia, e questa è una prerogativa che fa parte delle misure che le nostre Comunità devono avere, cioè se una nostra Comunità non ha tutte le gambe alte così viene scartata perché non è più la Comunità che Cristo vuole: viene scartata e non compirà il bene che deve compiere. Una delle prime caratteristiche a cui dobbiamo badare in casa nostra è che non ci deve essere mormorazione e critica di alcuna sorte. Questo vuol dire chiudere la bocca? Nossignori, nossignori! Bisogna stare attenti al disegno e guardare se si è alti come richiede il disegno, vedere se c’è qualcosa da dire anche a proposito del tavolino accanto e andare dal capofficina e dirgli: “Scusi, mi pare che il tavolino sia cinque centimetri più basso del disegno”. Questo è un dovere, non è una critica. Si critica quando ci si mette a dire: “Guarda qua... guarda là...”, e lo si fa soltanto per guastare la vita comunitaria. Ma un fratello che avvicina un fratello e gli dice: “Mi sembra che Adriano cantando abbia stonato; proviamo a sentire un po’ e ascoltiamo...”,“Sì, è vero!”, e poi va da Adriano e gli dice: “Fratello, guarda che tu stoni quando canti. Forse rendi più gloria a Dio tacendo quando cantano gli altri perché, altrimenti, rovini tutto”, fa un atto di carità: questo è un dovere di coscienza, e uno che non lo fa manca di carità, e il Signore chiederà conto a chi ha mancato di carità.

COMUNITÀ

critica

PECCATO mormorazione

ESEMPI comunità

ESEMPI correzione fraterna

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8.La critica è una cosa, la correzione fraterna, la collaborazione fraterna, perché siano ben costruiti questi tavoli, è un’altra cosa, è un dovere. Nessuno vi chiude la bocca! Anzi, vi dico che vi rimprovero se non andate dai superiori, se non aprite la bocca, se non andate dai confratelli, perché vuol dire che non siete preoccupati di creare l’ambiente, di aiutare l’ambiente a crescere secondo il progetto di Dio. Si tratta solo di come si devono vedere le cose. Tu hai la grazia - ti dico la grazia! - di vedere le cose che non vanno, di sentire le note stonate? Ringrazia Dio! Ci sono alcuni che dicono: “Mah, quello è un brontolone!”. No, può darsi che quello abbia la grazia di sentire le note stonate, di vedere le cose che non vanno: ringraziamo il Signore che almeno qualcuno le vede! Però è disgraziato se va in giro per la strada a dire che qui si stona e non aiuta invece ad incordare le voci con l’organo o l’armonio in casa.
È condannato il fatto di andare in giro per la strada a dire che le cose non vanno bene, ma non quello di dirle: questa è una grazia di Dio, una meravigliosa grazia di Dio! È l’ufficio tecnico: vorrei dire che sono quei tecnici che Dio ha messo nello stabilimento perché vedono, sanno organizzare, fanno andare avanti bene la produzione. Quei tali che vedono le cose e che sono spinti alla critica, se entra in loro la carità, un domani saranno i direttori meravigliosi di quella che può essere una casa di formazione, una parrocchia, una organizzazione cattolica; di solito queste persone sono le migliori per organizzare perché vedono le cose. Ma il veleno tremendo è quando si fermano a vederle e a criticarle, e non collaborano per andare avanti. Perciò una delle prime cose è questa: se vogliamo che le tre gambe stiano proprio in giusto equilibrio bisogna che ognuno si preoccupi di aiutare il fratello. Mentre io ho il dovere di dare il buon esempio, ho anche il diritto che il mio fratello me lo dia il buon esempio, ma se io mi accorgo che mio fratello non mi dà il buon esempio, devo aiutarlo con carità e fraternità ad equilibrarsi. Ma sarà sempre non un equilibrarsi fra noi, ma rivolgendosi a quello che è il disegno originale perché, può darsi, che tutta la musica sia calata di un’ottava; può esserci l’armonia, ma si è calati di un’ottava rispetto allo spartito originale, e quando nell’orchestra metteremo insieme queste cornette che suonano un’ottava più bassa con gli altri strumenti, la musica non riesce bene.

COMUNITÀ

critica

COMUNITÀ

correzione fraterna

COMUNITÀ

confratelli

COMUNITÀ

superiore

GRAZIA

ESEMPI correzione fraterna

ESEMPI critica

COMUNITÀ

servizio reciproco

CONGREGAZIONE carisma

ESEMPI Congregazione

Don Ottorino ritorna spesso sulle sue scarse qualità e conoscenze musicali.

A questo punto si ascolta nel testo registrato l’intervento del diacono Vinicio Picco, consigliere generale e responsabile del laboratorio di meccanica, che dice: “Tutto perfetto certo non è. Naturalmente io non so se sotto l’aspetto spirituale, perlomeno sotto l’aspetto pratiche di pietà, tutto vada bene; non so se uno vada o non vada dal padre spirituale. Posso dire che abbiamo parecchie imperfezioni che possono toccare, non so, la povertà, per esempio, l’obbedienza... di cui ho visto e sentito dire. Bisognerebbe fare una casistica... Qualcosa da fare c’è senz’altro, insomma: il silenzio in camerata, l’orario... non so, certe disposizioni che vengono date, ma che non vengono osservate”.

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9.
Adesso entro in un campo che non è il mio, ma voi capite chiaramente che se io prendo questo pezzo, che suonato dalle cornette va molto bene finché suonano da sole, e lo metto insieme con i tamburi e con le trombe e con i clarini che suonano in un’ottava diversa, non va bene, e peggio ancora sarebbe se invece di un’ottava si trattasse di mezza ottava. Se fosse un’ottava in qualche modo ancora si balla, ma con mezza ottava di differenza, non so: musicisti, per carità, non rimproveratemi! Sempre su questo argomento ho segnato qui qualche appunto che riguarda l’obbligo di essere come Dio ci vuole. Io vorrei adesso sentire un pochino qualcuno di voi dato che questa mattina è meglio che continuiamo su questo argomento, rimandando alla prossima volta la lettura delle delibere. C’è qualcosa, secondo voi, con tutta fraternità, che si potrebbe rimediare, qualcosa che stona un pochino? Che cosa vi pare? Adesso io ho dato un’idea, un po’ buttata in fretta e furia, ma se c’è qualcosa voi capite chiaramente che abbiamo il dovere dinanzi a Dio di portare le comunità ad essere armonicamente sincronizzate con Dio e con gli uomini perché dobbiamo dare testimonianza comunitaria della carità. Per arrivare a questo c’è una strada lunga da fare; ci possono essere delle difficoltà che provengono da me o che dipendono da voi. Ora siamo qui, dinanzi a Gesù, abbiamo ricevuto la comunione da poco, perciò abbiamo il Signore dentro di noi. Vi pare che ci sia qualcosa da dire a questo riguardo? Se qualcuno vuole prendere la parola, mosso dallo Spirito Santo... possibile che non ci sia qualcuno che abbia dei carismi speciali? Tu, Girolamo? Vinicio?

COMUNITÀ

unità

nella carità

Il diacono Vinicio Picco a questo punto sviluppa ulteriormente il suo intervento aggiungendo: “Infatti, don Ottorino, mi riservavo di tirar fuori un po’ l’argomento della povertà una domenica pomeriggio. Non se se sia un problema di povertà, ma quante volte abbiamo detto: “Rispettate le cose degli altri, rispettate - don Ottorino, scusi - gli attrezzi”. Lei lo sa bene che è il mio pallino, ma d’altra parte sono responsabile dello loro custodia. Invariabilmente, immancabilmente, quotidianamente, continuano a sparire cose, di qua e di là, e non tornano, o se tornano alla chetichella è perché sono rotte e compagnia bella. Non so se mi spiego. Quelli che ho vicino lo sanno bene, e mi riservavo di tirare fuori il discorso perché questa non è soltanto una cosa superficiale. Mi spiego? Non siamo bambini, ormai siamo uomini, insomma, e certe cose non si possono più fare per conto proprio. Non so se mi spiego. Bisognerebbe scendere a casi concreti, ma, ecco, per conto mio, questo è un termometro. Ha capito, don Ottorino?”.

A questo punto interviene don Giuseppe Rodighiero, all’epoca ancora novizio, dicendo: “Io vorrei dire a proposito di questo argomento che, forse, qualche volta la libertà che ci viene data, e anche il senso di fiducia che ci viene dato, permette, almeno a qualcuno di noi, di svolgere la sua vita in un ambito molto individuale, e così certe cose non le fa, a certe regole non bada, praticamente fa quello che vuole... Fuori, forse, potrebbe essere peggio, quindi rimane dentro nella nostra Famiglia... ma non perché partecipi della nostra Famiglia, perché faccia parte della nostra Famiglia, perché voglia assumere lo spirito della Congregazione”.

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10. 5. La fedeltà, per amore, al proprio dovere
Queste piccole cose, che non sono piccole in se stesse, rientrano in quello che è lo spirito di penitenza. Una delle prime cose che si devono fare è un po’ di penitenza. Noi non facciamo penitenze straordinarie: non c’è questione di digiuno, non c’è questione di grandi penitenze, ma per amore del Signore ci sono queste piccole penitenze che lui ci chiede. Allora se vogliamo che le tre gambe siano uguali bisognerebbe che queste piccole penitenze fossero fatte da tutti. Per esempio, si stabilisce che alla sera si faccia silenzio: stabiliamo il silenzio alle dieci e mezzo, lo stabiliamo alle undici, lo stabiliamo a mezzanotte, ma una volta stabilito insieme l’orario, quella dev’essere l’ora del silenzio. Una piccola cosa può essere anche cambiata, ma può diventare una dissonanza; se queste dissonanze sono continue diventano stonature. Quello che io accennavo prima in forma generica è questo: c’è il pericolo che ognuno faccia da sé. Avete capito? Ognuno potrebbe farsi il proprio disegno e, senza volerlo, la propria santità, ideata nel modo che crede: “Dinanzi a Dio mi sembra di essere a posto”, e va avanti per la sua strada. Questo è un errore enorme, questo è un errore enorme! Ho piacere che queste osservazioni le abbia dette tu e che mi abbia risparmiato di dirle perché, dette da te, hanno maggior valore. Se uno fosse fuori, per esempio un operaio, sarebbe talmente legato a un dovere, come a quello dell’orario per essere alle otto del mattino presente sul posto di lavoro, che neanche gli passerebbe per la testa di dire: “Beh, stamattina invece di andare a lavorare alle otto vado alle dieci. Il lavoro che devo fare non è tanto importante, e quindi vado a lavorare alle nove!”. Per me questo è inconcepibile. È inconcepibile che uno studente del corso teologico di sua iniziativa stia assente un’ora dalla scuola. Sono stato scolaro anch’io per dodici anni, ma in dodici anni non sono mai stato fuori un’ora dalla scuola senza permesso, e penso che anche don Giuseppe abbia fatto lo stesso. Per noi era inconcepibile perché era un dovere.

COMUNITÀ

PENITENZA

ESEMPI comunità

Il professore Riccardo Vicari era insegnante alla Casa dell’Immacolata, e allo stesso tempo in alcune scuole statali della città, come il liceo “A. Pigafetta” di Vicenza.

Cfr. Matteo 12,36.

Proverbio popolare dell’ Italia del Nord (Michelasso=Michelaccio, dispregiativo di Michele): “L’arte del Michelasso: mangiare, bere e andare a spasso”. Il significato è evidente: si parla di uno che è vagabondo, disimpegnato, che vive sulle spalle degli altri.

MI274,11 [15-04-69]

11.
Il professor Vicari, quando era professore al liceo, se una volta rimaneva a casa un’ora telefonava al preside e diceva. “Guardi, mi capita così e così”; non piantava in asso la scuola. Qual è il professore che pianta in asso la scuola? Come può uno della vostra età, per esempio, dire: “Beh, oggi a scuola, in seminario, c’è canto e io non ci vado. Non ci vado perché, tanto, a scuola di canto niente si impara e niente si fa!”. Questo una volta sarebbe stato inconcepibile! Noi che professiamo la santità siamo peggiori di quelli che non la professano, perché loro sono ligi al proprio dovere per paura, e noi, per togliere la paura, diciamo: “Non mettiamo il carabiniere con il fucile a spararti, però lasciamo Dio come testimone del tuo dovere”. Tu che hai Dio come testimone del tuo dovere sei giudice di te stesso e fai quello che ti piace e pare, mentre l’altro che ha il padrone che lo controlla, deve fare. Allora gli altri hanno ragione di dire che ‘per stare bene è meglio andare preti’! Hanno ragione, hanno pienamente ragione: “Vanno preti... intanto mangiano, bevono e fanno quello che vogliono, fanno quello che vogliono”. Eh, no! Devono vedere che noi siamo più schiavi del dovere di loro. Perché? Perché noi non abbiamo il padrone, ma abbiamo Dio il quale ci domanda conto anche di un minuto, ci domanda conto anche di una piccola azione.Anche se godo di una certa libertà, per amore di Dio non devo fare un chilometro di più in macchina se lui non lo vuole, non devo bere un caffè di più se lui non vuole, non devo prendere un bicchiere di acqua di più se lui non vuole. Il pericolo enorme è questo: si va avanti alla buona, si fa come meglio piace, ma questa è la vita del ‘Michelasso’e allora non scocca la scintilla di Dio, neanche per sogno! Ho piacere che tu abbia tirato fuori l’argomento perché è questo un po’ il tema che mi sta a cuore. Noi abbiamo concesso una certa libertà, abbiamo tolto un pochino quell’impalcatura che è stata quella che ha condotto avanti la nostra formazione, ma... fuori nel mondo, negli stabilimenti, questa impalcatura diventa sempre più terribile perché andiamo verso l’automazione e perciò l’uomo diventa sempre più macchina: tan, tan, tan, e la vita dell’operaio diventa sempre più monotona. Noi abbiamo tolto questa pesantezza, ma non abbiamo tolto il dovere, perché il dovere rimane. Non abbiamo messo un carabiniere vicino alla gamba che si deve costruire e abbiamo detto: “Arrangiati...”, ma il tavolino deve venir fuori. Adesso che ci sia uno che vi prende a pugni per fare un tavolino o che ci fidiamo e ve lo facciamo fare a domicilio è secondario, ma resta il fatto che all’ora stabilita il Signore viene a prendere il tavolino con le tre gambe giuste.

COMUNITÀ

CONSACRAZIONE santità

CONSACRAZIONE fedeltà

VOLONTÀ

di DIO

A questo punto interviene Mario Corato, che all’epoca frequentava il 1° anno del corso teologico, dicendo: “Mi sono accorto di questo tipo di problemi: qualche volta si crede un po’ di essere in albergo... Porto un esempio, e allora forse si capisce meglio, a proposito dei telefoni. Qualche volta capita che uno che ha finito il suo turno di servizio ai telefoni: “Io devo stare al telefono fino alle dieci”, e alle dieci quello parte e va via senza preoccuparsi se l’altro che gli deve dare il cambio è arrivato. Mi sembra che non si possa fare una cosa così perché, insomma, è casa nostra o non è casa nostra? Devo almeno interessarmi che venga l’altro a darmi il cambio. Non è tanto il fatto in sé, che però è già una cosa grave, perché se capitasse fuori, in qualche ufficio, è una cosa che non se la passerebbe liscia, quanto il fatto che si pone la domanda: sei di casa o non sei di casa, insomma? Se sei di casa ti interessi che quello che deve sostituirti arrivi perché può esserci una persona da ricevere, una telefonata urgente a cui rispondere...”.

Don Ottorino ritorna all’esempio del tavolino a tre gambe con il quale aveva iniziato la meditazione.

MI274,12 [15-04-69]

12.Ecco, è appunto questo quello che mi fa tanto soffrire e su cui qualche volta mi sono domandato: “Ho lasciato troppa libertà? Ho concesso troppa fiducia? Va bene così o forse ho mancato perché sono stato troppo duro? Oppure...”. Sono domande che mi faccio, però osservando bene io vedo che queste piccole cose non vengono offerte al Signore. Guardate che il Signore, a cui Santa Teresa del Bambino Gesù offriva le piccole cose, è lo stesso di oggi! Guardate che le nostre buone mamme, nel loro piccolo mondo familiare, sono maestre a questo proposito: “Eh, io mi alzo presto per andare ad ascoltare la Messa... sa, faccio questo...”. Se lo fanno loro l’orario, e poi non mancano al loro dovere, e nelle nostre case hanno uno spirito di sacrificio che è meraviglioso.
Quello a cui accennavo prima allude a questo: se ognuno stabilisce la propria vita da se stesso, la Casa dell’Immacolata diventa un albergo, e per qualcuno che è qui presente la Casa dell’Immacolata è un albergo, scusate, ma io potrei dire che per qualcuno è un albergo dove si cerca di essere educati, di non camminare con le scarpe sporche sui tappeti... Eh, no, non si può fare un albergo della Casa dell’Immacolata, un luogo dove si va, si mangia, si fa, e dopo ognuno va per conto proprio. Sono tante cose di questo genere da biasimare, come, ad esempio, il dire: “Io? Io ho fatto il mio servizio! Mi avevano detto di rimanere in portineria fino alle dieci e allora io alle dieci me ne vado. A me non interessa e che si arrangino! Non deve venire quell’altro?”. C’è qualcosa che manca in questo modo di fare. Il Signore che è lì presente, approva veramente l’andar via senza aspettare il cambio? Si può dire con carità all’altro: “Perché vieni sempre in ritardo?”. Bisogna aiutare l’altro ad essere una gamba giusta, ma non si può abbandonare il tavolino perché l’altro arriva in ritardo. “Ma, sì, rovescia tutto! A me non interessa!”. Se uno si comporta così in un ufficio pubblico, viene licenziato. Non è vero, Vinicio? O per lo meno riceve una batosta tale che neppure l’immagina, perché in un ufficio pubblico uno non può dire: “Beh, non era il mio orario”. “C'era quello che ti sostituiva?”. “No, io me ne sono andato via!”.

COMUNITÀ

FAMIGLIA

CONGREGAZIONE Case della Congregazione

COMUNITÀ

servizio reciproco

Il diacono Vinicio Picco aveva lavorato come dipendente di un stabilimento prima di entrare in Congregazione.

A questo punto si ascolta l’intervento di don Guido Massignan che dice: “A proposito di questo spirito d’amore mi ha colpito moltissimo una conversazione che ho avuto. Durante la settimana santa sono andato a Sandrigo e ho trovato lì un sacerdote indiano che studia a Roma e che a Natale e a Pasqua viene a confessare; è di rito malabarico, quello di San Tommaso. Mi diceva che loro, per esempio, non hanno nessuna legge che li obbliga sotto pena di peccato grave, parlo delle leggi umane ecclesiastiche; per esempio, noi preti cattolici abbiamo il dovere, sotto pena di peccato grave, di dire il breviario, loro no, possono anche non dirlo, ma tutti lo dicono. Perché? Per amore! Se si ama non c’è bisogno di imporre una cosa. Mi pare che noi abbiamo cercato qui di fare le cose con questo spirito, di vivere così la nostra vita religiosa. Forse, si potrebbe mettere dei carabinieri, mettere delle norme più ferme, essere più rigidi e più rigorosi, ma...”.

Il riferimento è alle stanzette riservate al riposo, durante il quale il silenzio serale era rigorosissimo, ed era chiamato il “grande silenzio”, per favorire l’interiorità e la preghiera.

Il riferimento è a mons. Luigi Caliaro, insegnante di lettere nel seminario vescovile, e per alcuni anni responsabile degli studi della Casa dell’Immacolata.

MI274,13 [15-04-69]

13.Non è permesso in uno stabilimento fare una cosa simile, nei turni di lavoro. Non è vero, Vinicio, che te ne intendi?
Per me, per esempio, è stata una cosa dolorosissima sentire qualche mese fa che in stanza si chiacchierava, che nelle stanze di sopra si chiacchierava; per me è stata una cosa inaudita.Non ho saputo il fatto da Umberto perché non mi ha parlato di Francesco, l’ho sentito da Francesco che parlando di altre cose ha detto: “Noi chiacchieriamo”; perciò non è stato uno che abbia detto dell’altro. Per me è stata una mazzata; sarò stato ingenuo, ma credevo di potermi fidare dei miei giovani. All’inizio dell’Opera una delle cose su cui insistevo con i nostri giovani era il dovere da compiere per amore del Signore, e basta! Quando veniva qui monsignor Caliarovisitava entrava per vedere e dopo ne parlava continuamente in seminario: entrava nella stanza da studio e restava sorpreso perché trovava i giovani che facevano silenzio... Una delle cose che venivano inculcate ai ragazzi era che il dovere è dovere; se il Signore ha domandato questo, questo si deve fare con prontezza e serietà. È troppo pesante? Diminuiamolo, ma quello che diciamo di dare al Signore, diamolo interamente. Perciò nessuno andava fuori dallo studio senza il permesso, senza avvisare il compagno che era più vecchio... Ricordi, don Guido, i primi tempi, quando veniva monsignor Caliaro che poi ne parlava continuamente in seminario? Diceva: “Si va là in qualunque momento, a qualunque ora, e tu vedi che sono in silenzio da soli anche se non c’è l’assistente, anche se non c’è qualcuno che li custodisca”, perché questa era una cosa inconcepibile in seminario. Si era inculcato questo principio. Quando io vi ho mandato a dormire di sopra, a tre a tre, io non sono mai venuto una volta in tutti questi anni ad ascoltare, mai una volta. Perché? Perché, scusatemi, non mi passava neanche per la testa il pensiero che un giovane a cui avevo dato fiducia non fosse ossequiente. Per esempio, se fossi stato in seminario e mi avessero detto: “Va’ in camera; però dopo le dieci non si esce di camera”. Se io fossi uscito una volta dopo le dieci dalla camera senza permesso avrei sentito dentro di me che non sarei più stato degno del seminario, mi sarei vergognato di restare in seminario. Se il seminario mi dà fiducia e dice: “Tu fino alle dieci puoi andare dove vuoi, ma alle dieci devi stare in camera!”, se io vado in camera alle dieci e un minuto vado dal superiore e gli dico: “Ieri sera ho sbagliato. Mi è capitato di andare al gabinetto, era occupato e ho dovuto aspettare”. Se non faccio questo, a me pare di avere mancato, insomma, ho mancato perché ho promesso una cosa al Signore e non l’ho fatta.

COMUNITÀ

FORMAZIONE

DOTI UMANE coerenza

VOLONTÀ

di DIO

DIO amore a Dio

VIRTÙ

fiducia

Non era permesso agli studenti di teologia della Casa dell’Immacolata, che frequentavano presso il seminario diocesano, uscire in città durante l'intervallo della ricreazione a metà mattinata.

Il riferimento è ai superiori di alcune Comunità: don Aldo dell’Istituto San Gaetano di Vicenza, don Flavio Campi di quella di Monterotondo (Roma), e don Marcello Rossetto di quella di Crotone.

MI274,14 [15-04-69]

14.
Ogni tanto mi è capitato di sentire che chiacchierate in stanza e io non ho mai controllato e non verrò a controllare perché sarebbe umiliante per me fare questo... e inoltre per me è una cosa inconcepibile. Se è stabilito, per esempio, che tu in seminario non devi uscire in città dalle dieci e mezzo alle undici,perché esci? Se è stabilito che non si vada, non si va, e per andare ci vuole il permesso, e questo non per indagare su chi va o su chi non va. Coloro che mancano non sono degni di stare nella Casa dell’Immacolata! Oggi fai questa mancanza, domani ne farai un’altra e, insomma, al Signore dai quello che vuoi. Io non voglio domandarvi se andate a comprarvi i giornali o le riviste; sapete che non lo potete fare. Io non vengo a controllare i libri che avete in studio, i libri che avete in stanza, o se vi portate in stanza le bottiglie. Io non sono mai venuto a fare inquisizioni, però voi sapete che avete un dovere e alla fine, facendo l’esame di coscienza, dovete dire: “No, io non sono degno di questa casa perché io non faccio il mio dovere!”; dovete voi stessi essere i giudici, siete voi che dovete dire al Signore. “No, questo non lo devo fare; io sto menando per il naso il Signore!”. Guardate che un domani sarete dei parassiti nella Congregazione, sarete quelli che frenerete la Congregazione! È preferibile cinque tavoli fatti bene piuttosto che spedire cinquanta tavoli che dopo vengono rispediti a casa perché non vanno bene; è preferibile consegnare dieci motori che funzionano che mandare via mille motori che ti vengono restituiti perché riscaldano! Un domani la Casa dell’Immacolata non deve essere un ufficio di riparazione degli uomini, perché uno ha la fidanzata, un altro litiga, e vengono rimandati indietro... Ci capiamo bene? Siamo d’accordo? Se non siete fedeli alle piccole cose, voi siete destinati entro qualche anno o a partire e andare in qualche altra parte o a venire mandati a casa per l’ufficio recuperi. Guardate che è inevitabile! Se non siete fedeli nel dare al Signore queste piccole cose, domani cominceranno a piovere lettere dai superiori delle varie Comunità: “Quello fa quello che vuole... quell’altro lavora, ma fa quello che vuole, va dove vuole, crea quello che vuole, si è fatto il suo piccolo mondo e io qui non lo voglio, io non lo voglio!”. E già abbiamo parecchi nomi, dico parecchi nomi, che dovrebbero mettersi nell’ufficio recuperi, perché uno non lo vuole nessuno, l’altro: “Questo non lo voglio! Questo non lo voglio!”. Parliamoci chiari! E allora devo dire a don Aldo: “Porta pazienza”; devo dire a don Flavio: “Porta pazienza”; devo dire a don Marcello: “Porta pazienza”... “et ita porro”! State attenti perché il male non è nelle cose grandi, è in queste piccole cose: o voi siete fedeli in queste piccole cose e allora siete sicuri, siete in grado di coprire qualsiasi carica nella Congregazione perché siete strumenti nelle mani di Dio, altrimenti sarete un peso per voi e per gli altri, e così sia!

COMUNITÀ

CONGREGAZIONE Case della Congregazione

CONGREGAZIONE appartenenza

CONVERSIONE esame di coscienza

CONSACRAZIONE mediocrità