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LA VITA COMUNITARIA RICHIEDE PAZIENZA E LONGANIMITÀ

MO193 [22-06-1967]

22 Giugno 1967

MO193,1 [22-06-1967]

1 Ieri Ieri mattina abbiamo cominciato a trattare qua: "... pazienza coi fratelli deboli...". Lo ricordo leggendo le ultime parole.
"Questa esortazione sembra riassumere in sé tutte le altre. Le prime comunità cristiane erano fraternità con una vita comune molto estesa". 'Molto estesa'. Per noi la vita comune deve essere molto estesa. No ridursi soltanto vita comune, mostrarsi qualche volta, qualche cinque minuti quando se magna. La vita comune dev'essere molto di più. Dev'essere vita comune perché si va lì a tavola, eccetera, star lì... Ora, sentite, io penso che qualche volta, quando ci si ferma a tavola, lì, domani in una Comunità, fermarsi dopo, magari cinque minuti se tanto è possibile, faccia parte della carità. Non so se sbaglio in questo, tu, don Guido, cosa ne dici? Penso, per esempio, domani vi troverete in una Comunità, e è chiaro che ci sono tante cose da fare e che le dovete fare, e che le dovete far bene, e dovete farne tante cose, ma il dire: "Bene, adesso siamo qui a mezzogiorno, ci fermiamo qui cinque minuti un pochino". Se c'è... non si discute, se c'è un ammalato grave, se c'è qualche cosa... non si discute. Ma, mi pare, che se viene una persona, per esempio, a domandare un consiglio, viene una signora, un avvocato... non ti fermi mica due minuti, sa, ti fermi una mezz'ora, un quarto d'ora. Se una persona viene a domandarti un consiglio: "Scusi, vero, lei, don Gaetano...". "Sì, così, così... Ehhmmm! Saluti!". No! "Come stala, signora? Come va?". Tu ci dai quei dieci minuti, quel quarto d'ora... Durante la giornata, questo quarto d'ora lo diamo a tante persone, perché se no non siamo neanche uomini, lo diamo per un motivo umano e per un motivo soprannaturale, no? E, scusate tanto, e queste creature che hanno lavorato una giornata intera, e hanno data la vita al Signore, e se fossero fuori avrebbero una moglie e dei figli, e avrebbero la gioia di avere dei figli saltare sopra le ginocchia, abbracciarli, eccetera eccetera, non hanno mica il diritto forse, queste creature... di dieci minuti star lì, dopo mangiato, a scambiarsi una parola, dir una parola? Dico male? Esagero, signor consigliere?

MO193,2 [22-06-1967]

2 Perciò, mi raccomando, ecco, nella vita comune, nella vita di comunità ci dev'essere molta intesa, e intesa anche in questa parte che sembrerebbe umana, ma è necessaria. Penso che anche la Madonna e Gesù e Giuseppe si siano fermati qualche volta un pochino, non mica a fare i sentimentalisti, no, no, ma a volersi bene, star lì a scambiarsi una parola. Mica star là le ore a star là a chiacchierare, no, c'è sempre, vero... tra la minestra senza sale o con massa sale, in mezzo ghe xe la minestra salà giusta. Dico male? Tra la minestra con massa e poco, ghe xe quela salà giusta. Tra l'esagerazione de star lì: presto, magna, curi, curi... e star là a ciacolare le ore, ghe xe in mezzo la convenienza de volerse ben, de star lì un momentino.
"Vivere in comunità significa però sopportarsi a vicenda...". Cosa volete fare: sopportarci a vicenda! Bisogna partire già pensando: "Siamo in una Comunità di quattro, io devo essere sopportato e devo sopportarne tre". Niente da fare! Se io pretendo di non essere... di non aver bisogno di essere sopportato e di non voler sopportare alcuni, è impossibile la comunità! Quando si fa questo... bisogna già mettersi in questa idea che io devo... con loro, dobbiamo vivere insieme. È chiaro che se io faccio un viaggio in uno scompartimento da solo posso anche russare, posso sdraiarmi sui sedili, ma se nello scompartimento siamo in sei o siamo in otto, io devo sopportare gli altri, ma gli altri devono sopportare me. Quando io entro in uno scompartimento e supponiamo ci sono... con un sedile a quattro posti, e ci sono già tre... io entro e dico dentro di me: "Accidenti, guarda quanti che ce ne sono! Perché adesso... io speravo di fare il viaggio di notte e potermi sdraiare, avere il posto da solo". Ma gli altri dicono: "Accidenti, un altro ghe nè vegnù dentro!". Eh, è chiaro? Io guardo me stesso e dico: "Accidenti! Varda xe tutto occupà! Beh, almanco go un posto da sentarme!". Ma gli altri quattro... Vardè che nella vita comune è così: io mando accidenti agli altri, ma gli altri li mandano a me. Ed è qui, cari, che ci vuol tanta umiltà. E questa... questo, guardate figlioli, sì, lo diciamo: "Eh, chissà gli altri quanto che i ga da compatirme!", ma non siamo convinti che dobbiamo essere compatiti. State attenti: è raro, rarissimo trovare uno che realmente sa de spuzzare e che è convinto che col suo odore rende nauseante la vita comunitaria: è rarissimo! Credo di non averne proprio mai trovato realmente uno: neanche me stesso. Eppure, eppure, guardate che tutti, entrando nello scompartimento, rendiamo più pesante lo scompartimento. Ah, dopo, se ci mettiamo a chiacchierare... "Oh, che conversazione! - gli altri diranno - Varda ti, dentro di noialtri pensavamo di uno che el vien qua a prendere il posto, al primo momento dicevamo... e varda che bellezza: l'è quello che ga tignù su la compagnia durante el viaggio... el xe passà in un attimo!". Ah, sì, ma intanto prima però i ga fatto el sacrificio e dire: "Ghe xe 'n'altra seccatura che vien dentro!".

MO193,3 [22-06-1967]

3 Gli esempi, gli esempi calzano fino a un certo punto, sono immagini, ma sono immagini che dicono qualche cosa. Perciò resta questo: che vivere in Comunità significa sopportarci a vicenda; quando ci dicono: volerci bene, volerci bene... sopportarci a vicenda, saper comprendere, saper capirci.
C'è una giornata che tu non hai voglia di parlare e l'altro ha voglia di parlare e non la finisce più, e c'è quella giornata viceversa che tu hai voglia di parlare e l'altro ha voglia di tacere. C'è la giornata in cui uno dice, perché ha voglia di bere un bicchiere di vino e el dixe: “Tusi, ca bevemo un bicère? Ca verzemo nda bottiglia?", e gli altri: "Ah, ah, ah, ah!", e quel porocan che el gaveva sén ghe tocca a far de manco. E se un'altra volta quei altri dixe... un altro dixe: "Vero, tusi, ca femo una fugazza par doman?", "Ah, ah,ah!”, e insomma quel porocan che el ga voia, insomma, nda volta par uno nda volta par l'altro, no la gha va mai dritta, no? Carità dixe: "Beh, tusi, ca verzemo nda bottiglia?". E Raffaele che nol ghi n'ha voia: "Ben, ben, sì, sì... eh, sì, sì!". E allora... ecco la carità! Dico male, lei? Dico nda bottiglia... Se uno ha bisogno di un gelato, può essere un gelato e può essere anche un'ora di adorazione. Ecco la carità! Può essere anche dire una corona in compagnia: ecco la carità! Non so se esagero... La vita xe fatta de ste robe qua, no de robe poetiche. Saper... come no?, saper accettare, vedere il desiderio del fratello che in cortile te dixe de darghe una man... così, con serenità, con gioia, in modo che quasi il fratello abbia l'impressione... E teniamo il paragone banale della bottiglia, l'impressione di averti fatto un piacere. E cioè, portiamo il caso pratico. C'è, mettiamo, don Luigi, Raffaele e Vinicio e digo: "Tusi, vi va una bottiglia? Verzèmo una bottiglia?". E Raffaele: "Sì, sì, don Ottorino!". E magari nol gh'in ha gnanca voia, ma lo fa per far un piacere a me. Ecco la carità, ecco la carità! Quello che vale... la gioia di aver fatto un piacere, e magari tu l'hai fatto a lui. "... aver pazienza con il fratello, aver pazienza, ritentare sempre di nuovo con lui...".

MO193,4 [22-06-1967]

4 "Ah, xe inutile, con quello ninte da fare!".
Vo in America e trovo là, vero, Venco, supponemo, superiore della comunità, e digo: "Come vala?". "Ah, con Renzo ninte da fare, sa, ninte da fare! A lo disea mi quella volta quando che gerimo a Vicenza! Cossa vorlo: mi ghe digo che l'impianta fasùi e lu l'impianta sorgo; se parlemo insieme e pensemo di impiantare sorgo, e lu el vol piantare angurie. Cossa vorlo: sempre la solita storia! Ninte da fare!". Ritentare di nuovo, ritentare di nuovo! Guardate, figlioli, che una mamma non dice mai "ninte da fare!" col fiolo, e la lo butta fora dalla finestra. La mamma la pianzerà pal fiolo, la sarà avvilita perché no la sa cosa fare, ma no xe mai che la mamma disarmi, gnanca se l'è condannà all'ergastolo. La mamma no disarma mai! Ora, se veramente c'è la vera carità nella nostra Comunità, non disarmiamo mai. "Xe vero, sì, che Renzo, cossa vorlo, xe vent'anni che semo insieme, xe vent'anni che cerchemo che... qua e là... Se porta pazienza... cossa vorlo fare? Savèmo come che l'è fatto, poareto! Lu el farà... tanti meriti, poareto, l'è così... el Signore el lo ga creà grosso, grande e grosso. Cosa vuto fare? nda volta el se senta in pressa su una carega e te la sfonda, 'n'altra volta el te strenze la man e el te spacca i ossi, 'n'altra volta... Cosa vuto fare? El ga za rovinà quattro sinque persone qua... e dopo i vien qua e i domanda la restituzione dei danni, el risarcimento dei danni. El ghe dà la man a uno: broomm! El te tien... el te spacca l'anelo! L'è fatto così, va ben... pazienza... l'è fatto così!”. Digo male? Bisogna accettare un pochino anche le deficienze delle persone. Dunque: "... ritentare sempre di nuovo con lui, senza impazientirsi nè rinunciare alla comunione". Mai dire: "Beh, quello là... quello là... ah, quello, quello l'è un poro tonto!". "Quanti sìo in Comunità?". "In tre!". "Non geri in quattro?". "Beh, insomma, quel Renzo là no lo contemo gnanca noialtri! Benchè l'è grande e grosso... anca i muscoli... no lo contemo gnanca!". Non rinunciare mai, non rinunciare mai!

MO193,5 [22-06-1967]

5 Te ve lassù da so zio de Venco. Quanti xei in casa, Venco, là, dove ghe xe tò cugina malà, poareta? Quattro... Ti te ghe dito tre, quattro con la cugina ammalà. Se te ghe domandi a tò zia: "Quanti sìo in casa?". "Quattro", la ga dito. No la dixe mia: "Tre e...", capissito? Ecco la differenza! Ti te disi: "Tre e me cugina malà...", e luri i dise: "Quanti sìo in casa?", "Quattro!". "Ma, quattro con...". "Sì, regolarmente!". No i se pensa gnanca de dire: “Tre più uno!”. Ecco... è sbagliato, fratello?
Perciò dico: "Ritentare sempre di nuovo, senza impazientirsi né rinunciare alla comunione". Vedìo, parché xe che insisto su sta roba qua? Parché, fioi, vardè che vignarà qualcuno, purtroppo savìo, finiremo per avere nelle nostre case qualcuno che pesa, ma che pesa. Attenti, ricordève che qualche volta ghe può essere uno che pesa, per esempio un ammalato, uno è ammalato per esempio trenta, quarant'anni... Beh, quello, l'è lu avvilito perché el dise: "Varda che peso ca son alla Comunità, varda quanti sacrifici!". Ma nol xe quelo tanto che pesa: l'è quelo che, che l'è malà e nol sa gnanca de essere malà. L'è quelo che pesa nel vero senso! Perché quelo, poareto, che l'è in letto: "Ma varda, che...". "Ma lassa stare: servèmo Gesù!". "Ma sì, ma intanto... invesse a sì qua, e mi invesse de aiutarve son qua altro che de peso... e son qua che ve domando sacrifici...". "Ma lascia stare!". "Son de peso qua mi!", eccetera. Ma no, queste non sono quelle che pesano. È giusto? Quelle che pesano... quei che xe ammalati, xe come uno che magna de più de un altro. Sa, per esempio, ghe xe Raffaele che magna una ciopeta de pan, e Renzo gh'in magna sette, no? No le te basta sette par pasto? Ghio capìo? Ora si tratta di questo. Uno ammalato è quello che esige un po' di sacrificio, e vol dire che xe come che el magnasse le ciope de pan in più, e vol dire che el ga bisogno de un po' de sacrificio in più.

MO193,6 [22-06-1967]

6 Ma quello, vedete, che pesa realmente, xe quando che uno crede de esser giusto e no l'è giusto, no? Quando tutti semo d'accordo de dire che ghe xe el sole adesso, lu el dixe che piove, vero? E quando che piove, tutti semo d'accordo de andar fora con l'ombrela e lu no, lu el va fora senza ombrela. D'accordo? Quando dixemo: "Varda che bisogna ca 'ndemo fora adesso a portar fora la roba a sugare", e lu dixe: "No, adesso bisogna portare in lavanderia a lavare un'altra volta la roba!"... appena lavà el la lava n'altra volta, vero? Questo, par mi xe quel che pesa, parchè te arresti tutto, eccetera, in questo modo!
E allora sentite, fratelli, io vi dico una cosa: come si fa a trovare la forza? Perché Gesù lo vuole, perché bisogna vedere Gesù, perché lo ha comandato Gesù. Sì, questo è il motivo certissimamente forte. Cioè, quando io mi convinco che è il Signore che ha permesso questo, che ha voluto questo, eccetera, allora certo io trovo la forza; ma anche un motivo umano io direi proprio che si può trovare: "E se fossi io? E se capitasse a me? Come vorrei essere sopportato?". Perché, ricordatevi bene, se oggi c'è, supponiamo, don Luigi che entra... va in crisi... poniamo sia lui... io devo dire a me stesso: "Va ben, lui è cascato qui in questa forma di esaurimento, in questa forma... quello che vuoi”. “No, la xe cattiveria!”. “Ma lascia stare! Lascia stare! Però, può darsi che io viva ancora trent'anni, e fra due anni io caschi dieci volte peggio di lui”. E allora, sentite un momentino, preferite voi aver la gobba o sopportare uno che ga la gobba? Preferite essere ciechi o dare una mano a uno che è cieco? State attenti! “L'è un po' schifoso... essere pien de piaghe su pal viso, là, che fa schifo... mangiare insieme...". E va bene! E allora preferiscito averle ti... per non aver lu che te fassa schifo, preferisci essere tu pieno di piaghe? "Eh, no, par carità!". E allora sopporta il fratello che le ha. Chiaro? Sapere insomma... voltarla subito. Questo per la natura; poi, per lo spirito, è Gesù presente... Ma per la natura il primo passo, siccome dobbiamo essere uomini, prima per la natura, te diria: "Senti, caro, e se te capitasse a ti?". E quello che è capitato a lui può capitare a te, può capitare domani a te, o anche oggi a te. E allora io sopporterò lui perché ho bisogno di essere sopportato io, aiuterò lui perché ho bisogno di essere aiutato io. Questa è la parte umana, e qualche volta... se non è sufficiente il pensiero del Paradiso per vincere il male, ci può essere il pensiero dell'Inferno, vero, che ci fa desistere dalla strada... Ora, se non altro, fallo per un motivo umano perché, oggi tu sopporti lui, e domani altri sopporteranno te.

MO193,7 [22-06-1967]

7 "È necessaria la longanimità, se si vuol convivere fraternamente con i disordinati, i pusillanimi, i deboli".
E allora il cuore longanime non può dire: "Lasso andar tutto!". No! Se uno può portare un quarèlo, vol dire che te ghe da fare in modo che el porta quel quarèlo, 'opportune e inopportune', con bontà e con carità e con fermezza, che el porta un quarèlo; ma no volere che Marco porta du quarèi quando che te sé che con un quarèlo e mezzo el se rabalta. Che colpa ghin'alo lu se el ga el naso che lo porta fora equilibrio e xe fassile che el fassa un capitombolo? Cioè, saper sopportare, sopportare anche questa deficienza, vero, che lo mette in difficoltà. Però, no dire: "Beh, allora... se i vien altro che a intrigare... che i lassa stare che mi me 'rangio mi, e mi e Renzo gh'in portemo sinquanta...". No! Quel quarèlo lassa pur che el lo porta lu! "Ma se el va lento? Se lu invesse lo mandemo a sugare i scuglieri, insieme con le femene, no? E mi... l'è un intrigo par gnente: el me lo tira indrìo dalla comunità!". No! El fiolo el sta lì e el porta un quarèlo, e quel quarèlo te lo mettarè anzi in vista sul davanzale de nda finestra... "Quelo lo go messo mi... quelo lo go messo mi!". Questa è carità! "Cossa vuto, ti te portavi un quarèlo solo...". No, daghe la gioia, lu poareto, deficiente, de... che almanco el gabbia la gioia de dire: "Quel quarèlo lo go messo mi!". "Dopo el se fa...". Ma lassa che el vada! Lassa che el vada! "Dopo el dixe che la casa el la ga costruia lu!". Ma làsseghe la gioia! Nol ghin'ha altre, poareto! "Paolo - el diventa rosso parchè go dito la verità - vede le cose con chiarezza e realismo". Vardè che bisogna essere oggettivi nelle cose, vardarle come che le xe, vardarle come che le xe, no? "Oh... no, no, no!". Quando le vardè come che le xe le cose, vedarì che ghe xe tanto de quel bene dentro, forse, che no ghi mai pensà che el ghe fusse! Perché, a prima vista te vardi Marco e te vedi el naso che pende in zo; eh, prova a farghe verzare la bocca e te vedi che ghe xe una 'venetta allegra che tien su! Niente da fare... niente da fare: così la xe! Ma bisogna andare in fondo per vedere bene. "Paolo vede le cose con chiarezza e realismo. Sì, con i disordinati, i pusillanimi, i deboli si esige pazienza”. Pazienza, pazienza! Guardate fratelli miei che ci vuole pazienza. Vardè che, ve digo, ghe vol pazienza. Savessi quante volte gavea voia de molar tutto mi, i primi tempi! Te provavi con uno... zezeze, e el vigneva fora storto! Te provavi con n'altro: el vigneva fora storto! Te indrizzavi da una parte, el se storzìa da l'altra! Te strucavi de qua, e vegnea fora el gnoco de là! Eppure, varda, con un po' de pazienza, che santi fioi che xe vegnù fora! Vardè Zeno là, che santo fiolo: struca de qua, struca de là! El sevita a ciacolare... Ghe xe mia modo de farlo tasére?

MO193,8 [22-06-1967]

8 No, attenti fioi, bisogna avere pazienza. Voialtri che siete all'Esternato coi ragazzi, una delle prime virtù xe questa: savere che tutto dipende da Dio e tutto dipende da noi, e aver pazienza! E aver pazienza non vuol dire: "Va ben, 'spetto che se fassa da solo!". No, no! Lavorare, 'opportune e inopportune', ma lavorarghe 'torno, ma aver pazienza, saver sopportare, comprendere... ghe vol pazienza! Me darì risposta adesso che xe tutta roba teorica ca ve digo, ma se un pochetin de ste parole ve le ricordarì quando... Fra diese, quindese anni, dirì: "Mamma mia, guai se no gavissimo avudo pazienza con quel Ruggero! Guai se no gavissimo avudo pazienza! Varda, el gera tanto un angeleto alla Casa dell'Immacolata, ma incoerente, incoerente: quando in scondòn el fumava le sigarette, quando el gavea la so scatoleta de tabacco... el ga scominsià el vizietto de cicare, e dopo, andar zo a bevar el bicerin, de notte... E dirghelo... e lu l'è là... e ciaparlo el superiore della comunità: "Ruggero, ma come mai, ma proprio ti!". "Ma no!". Prima el mentise e dopo el dise, ammette e non ammette... E aver pazienza... sperando nella conversione finale”.
"Ma è la carità che rende longanimi e pazienti". Figlioli, è la carità che ti rende paziente, è la fede in Dio, l'amore di Dio, l'amore del prossimo che ti dà la possibilità di tener fermi i nervi. "Iestinemei", diseva monsignor Snichelotto, "iestinemei", quando che el vedeva qualcheduna de quele femene davanti... Appena che la 'rivava: "Iestinemei"... "Iesus tene me!"... Iestinemei... Seto cosa che vol dire? "Iesus tene me!". Signore, tieme i nervi! Signore, tieme i nervi ca no scoppia! "Iestinemei, Iestenemei!". E qualche volta bisogna dire proprio così. Quando che i se ga messo d'accordo in quattro cinque a far una roba, tutto d'accordo... e dopo quell'altro... bisogna dire: "Iesus tene me! Jesus tene me!". Gesù, tieme i nervi! "Ma sta' attento! - te ghe disi - Ruggero, no gerimo d'accordo che fasissimo...". "No... el gera tutto differente!". "Sta' 'tento...", e dopo a dovaria dire: "Go sbaglià mi e no ti", e accettare che tutto vada cambià.

MO193,9 [22-06-1967]

9 Eppure, per avere la pace nelle fameje, tante nostre bone mamme fa così. Quando specialmente ghe xe suocere, suoceri, generi e spose in mezzo in casa... quanto... quanto lavoro! "Se el savesse! Xe fadiga qualche volta... ma sa, bisogna tasére. Eh, cosa vorlo: tasére, portar pazienza, tasére, portar pazienza! Portar pazienza e tasére, tasére e portar pazienza! E così, sa, se volemo ben, e così se tira vanti, e così no ghe xe mai gnente". Ghio mai sentìo de ste robe qua? "Bisogna saver tasére e portar pazienza, e allora, sa, se volemo ben! Basta vardarse, anche se qualche volta sarìa... ma, sa, romper la pace...". Questo xe quelo che se sente tante volte dalle nostre bone mamme, che le xe vissùe in casa coi fradei del marìo e con, eccetera, veci, vecie e putei in casa, eppure le xe passà come delle sante nelle nostre fameje; ma perché le ga savudo portar pazienza, offrire al Signore e vincere con il bene il male, fare del bene, aiutare, dimenticare, fingere di non sapere, vero? Magari una donna de casa disea male della Betta, e ela invesse che... "Oh, cara Maria!", la ghe fasea el caffè. Vardè che go esempi in testa quando ca parlo... Ecco qua: questa xe là che sevita a dir male de questa che xe in casa in compagnia, e questa la se vendica... la va al mercà e la ghe porta a casa nda traversa. Al giorno dopo questa brontola: "Oh! Boh! L'altra...!", e quell'altra ghe fa un piassere.
Questa è la carità! Ma vardè che questa bisogna insegnarghela agli altri... "Iesus autem coepit...”.