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POVERTÀ E LABORIOSITÀ NEL PERIODO FORMATIVO

MI146 [22-02-1967]

22 Febbraio 1967

Anche per questa meditazione don Ottorino si serve del libro di HEINZ SCHÜRMANN, Prima lettura ai Tessalonicesi, Città Nuova editrice Roma 1965, limitandosi però all’unica citazione, riportata in corsivo, della 1 Tess 2,7-8, presa dalla pag. 49.

Don Vittorio Venturin frequentava all’epoca il 4° anno del corso teologico ed era ancora diacono, e nel testo registrato così risponde alla domanda di don Ottorino: “Voleva dire che poteva farsi mantenere come facevano gli altri”.

Giacomo Pellizzari, fondatore dell’omonima grande industria elettromeccanica di Arzignano (VI), specializzata nella costruzione di motori elettrici e pompe idrauliche, aiutò l’Istituto San Gaetano in vari modi come don Ottorino racconta anche in questa meditazione. La figlia Mary passava spesso ad aiutare le guardarobiere dell’Istituto rammendando il vestiario dei ragazzi

L’affermazione di don Ottorino va riferita ai tempi (1900 -1950) che nel Veneto coincidono con la prima fase dell’ industrializzazione della regione. Questa affermazione non è, poi, del tutto esatta se si considera l’ambiente a prevalente economia agricola, come era quello veneto, in cui tutti i componenti del nucleo familiare partecipavano in vario modo alla formazione del reddito comune.

MI146,1 [22-02-1967]

1 “... pur potendo pesare su di voi in qualità di apostoli di Cristo. Ma ci siamo comportati in mezzo a voi con dolcezza: come una madre che circonda d’amore e di cure i propri nati, così nel nostro amore per voi avremmo voluto donarvi non soltanto l’evangelo di Dio, ma ancora la nostra vita, tanto ci eravate cari!”.
Questo è quello che cercheremo di vedere stamattina. Ci sarebbe la prima righetta che non è tanto commentata; vorrei sottolinearla dato che mi è venuta l’ispirazione. “... pur potendo pesare su di voi in qualità di apostoli di Cristo”. Don Vittorio, che cosa voleva dire San Paolo con questo? ... e invece lavorava! Fratelli miei, questa paroletta viene detta anche per noi. Nella nostra Famiglia abbiamo detto ripetutamente che dobbiamo guadagnarci il pane con il sudore della nostra fronte. È facile che in una Famiglia religiosa, in una Comunità, non si sappia che cosa costa il sale. È una deviazione che faccio, che non avevo intenzione di fare prima di entrare e che mi è venuta dopo aver letto la frase di Paolo; perdonatemi, ma è meglio che la facciamo e dopo cominciamo la meditazione. Questa è una cosa comunissima, una cosa comunissima! Portiamo un esempio tratto dall’esperienza degli industriali. Il vecchio Pellizzari è venuto dalla gavetta, dalla gavetta è venuta fuori l’officinetta, e poi ha avviato l’attuale fabbrica. Il figlio è venuto al mondo quando si è risposato, perché dalla prima moglie non ha avuto figli maschi, e lui voleva un figlio che prolungasse il casato. Morta la moglie si è sposato un’altra volta. Le figlie sono rimaste male quando si è sposato la seconda volta. Le figlie erano abbastanza grandi: Mary, che adesso è a Milano, e Maria Teresa, che è a Chiampo e ha sposato Minuti, sono rimaste male, tanto è vero che sono andate a vivere fuori di casa. Il vecchio Pellizzari si è risposato e ha avuto un figlio e delle figlie - una delle figlie è Maria Grazia - e il figlio aveva nome Antonio. Allora fu tutto contento perché finalmente aveva un figlio, il continuatore dell’impresa familiare. Pellizzari aveva studiato un po’ di tecnologia, e allora ha mandato il figlio alle scuole industriali perché doveva essere un domani un industriale. Dopo un po’ di tempo il giovane si è trovato con i soldi in mano e ha cominciato ad avere passione per i quadri: ha cominciato a comprare quadri e ha riempito la casa, ha organizzato una pinacoteca e ha speso milioni e milioni in quadri. Poi ha avuto la passione della musica, e allora ha cominciato ad avviare un’orchestra. Poi ha perso la testa con le donne: era sposato, ha abbandonato la moglie e ha preso altre donne, ed è andato in malora. Poi si è fatto comunista ed è diventato un capo comunista. Alla fine è morto, anzi è stato trovato morto. Figlioli miei, perché? Perché quando è venuto al mondo si è trovato in una casa dove c’era il denaro in abbondanza e non ha conosciuto la fatica per guadagnarlo. Sottolineo questo aspetto perché è importantissimo. Noi siamo entrati in seminario, voi siete entrati in una casa di formazione ancora da piccoli, non siete vissuti nella vostra casa, almeno alcuni di voi, e non avete sudato per guadagnare il pane. Ricordo il mio povero papà: i suoi guadagni erano molto modesti, non c’erano altre entrate, e con quello si doveva vivere. Si doveva pagare l’affitto, bisognava comprarsi le scarpe... se c’erano soldi bene, se no pazienza! E se mio papà rimaneva un mese senza lavoro, tutta la ‘macchina’ restava indietro, e allora, se prima si beveva un litro di vino, ci si accontentava di berne mezzo litro o niente, perché bisognava aiutarsi un pochino per quel mese in cui papà non aveva lavorato. Nelle famiglie c’è una contabilità di questo genere, e questo non è proprio di una parte soltanto della gente, ma tutte le famiglie vivono in queste condizioni. Praticamente c’è una entrata che è frutto del sudore della fronte e una uscita: le uscite devono essere proporzionate alle entrate perché quando non c’è proporzione la famiglia va in malora, e allora sono disastri.

SOCIETÀ

lavoro

DOTI UMANE responsabilità

ESEMPI famiglia

FORMAZIONE educazione

AUTOBIOGRAFIA famiglia

Il riscaldamento dell’Istituto San Gaetano e della Casa dell’Immacolata, a quei tempi, funzionava a nafta.

All’Istituto San Gaetano c’era una pompa di benzina alla quale si rifornivano gli automezzi usati da tutti i religiosi delle comunità di Vicenza.

Don Ugo Caldini, missionario all’epoca in Guatemala, era maestro di canto e buon intenditore di musica.

Don Ottorino nomina don Erasmo De Poli che era già sacerdote e all’epoca dirigeva la Scuola F. Rodolfi per semiconvittori, Antonio Zordan che stava preparandosi per la missione in Argentina, Zeno Daniele che frequentava il 1° anno del corso teologico e aveva molta esperienza in campo amministrativo.

MI146,2 [22-02-1967]

2 Nella nostra formazione, nella vita comunitaria, è facile che questo aspetto formativo non ci sia. Perché? Perché viviamo in una Comunità, e non tutti dovete fare gli economi, non tutti potete andare a comprare la nafta ... Voi vedete arrivare il camion della nafta... Voi avete bisogno della corrente, ma non pensate, per esempio, che in un anno fra Istituto San Gaetano e Casa dell’Immacolata si è speso un milione di telefono; non pensate che in sei o sette mesi si è speso un milione e mezzo di benzina, oltre a quella che si compera in giro di qua e di là ; non pensate che in una stagione, mi pare da ottobre ad aprile, compreso l’Istituto di Asiago, si sono spesi cinque milioni e duecentomila lire per la nafta. Voi non sentite il peso di tutto questo; voi sapete di debiti da pagare, di provvidenza, ma non sentite sulle spalle il peso di queste cose. Un papà di famiglia, che compera quattordici o quindici ettolitri di nafta, sente il peso di quindici ettolitri di nafta sulle spalle, sente il peso di quel dolce che ha comperato perché deve tirar via da quella somma che ha, e non ci sono altre entrate.
Invece, qui, quando compro qualcosa a volte sento dire: “Oh, costa così poco! Costa così poco!”. Si dice questo con semplicità... è una malattia! Mi fermo un pochino a sottolineare questo aspetto perché è una malattia comunissima. Mi ricordo che una volta don Ugo , poverino, è andato a Padova con don Aldo per comprare un armonium per Asiago. “Quando costa questo armonium?”, ha detto don Aldo. “Centodiecimila lire”. “Così poco!”, ha detto don Ugo in faccia al venditore. “Così poco? Credevo che costasse molto di più!”. Don Aldo si è messo a ridere e poi ha commentato: “Almeno fosse furbo di tacere! Taci e di’ che costa tanto e che ti faccia uno sconto di diecimila lire”. Se tu chiedi uno sconto di diecimila lire e dici al negoziante che l’armonium costa poco, quello non dà peso alla richiesta. Questa forma di ingenuità, che non è colpa di don Ugo perché io da voi sento spesso frasi di questo genere, potrei sottolinearvela continuamente, potrei dirvi: “Guarda che tu sbagli: non sei abituato a valutare, non sai che cosa costi il denaro”. Voi avrete certamente un po’ di criterio nello spendere, ma non sentite la fatica di guadagnare il denaro. Se, per esempio, uno di voi dovesse andare a lavorare dalle otto della mattina alla sera e con quei soldi dovesse tirar fuori il necessario per le scarpe, per tutto... allora vedreste che prima di mollare mille o duemila lire direbbe: “Eh, piano, piano! Queste mille lire a me costano fatica”. Invece voi questa fatica non l’avete fatta. Questo è necessario sottolinearlo fortemente, perché la nostra gente dice una frase che io ho sentito tante e tante volte, e cioè: “I preti non sanno quello che costa il denaro... Usano i soldi degli altri e perciò fanno spese con facilità, ma poi tocca a noi pagarle!”. Avete mai sentito queste affermazioni? Tu, don Erasmo, hai mai sentito queste parole? Tu, Antonio, le hai mai sentite? Antonio, sì o no? Tu, Zeno, le hai mai sentite? Sono frasi comuni; è un luogo comune quello di dire: “Il prete fa la spesa... Dopo, magari, la finestra non gli piace più e la tira giù, e ha speso tre o quattrocentomila lire per l’armatura”. Lui decide: “Oh, guarda che bel lavoretto: bisogna farlo!”, e dopo aver speso altre tre o quattrocentomila lire cambia nuovamente! Con quali soldi paga? Quei soldi non sono suoi!

FORMAZIONE

COMUNITÀ

COMUNITÀ

corresponsabilità

FAMIGLIA papà

Cfr. Matteo 26,11.

MI146,3 [22-02-1967]

3 La mia preoccupazione - qui siamo in clima di meditazione e non di istruzione - è proprio questa: bisogna che noi portiamo un domani nella canonica e nella parrocchia la stessa serietà che c’è in una famiglia quando un papà spende dei soldi che non sono propri, che sono dei figlioli, che sono di tutta la famiglia: è denaro che costa fatica! Sprecare il denaro, e farlo con semplicità e faciloneria, è una cosa che grida vendetta dinanzi al Signore perché ci sono i poveri, anzitutto, che domandano aiuto, ci sono persone che patiscono. Nella parrocchia “pauperes semper habetis vobiscum” ; i poveri, nella parrocchia, ci sono. Nella vostra parrocchia c’è chi patisce, c’è chi soffre. Voi, nella parrocchia, siete padri, e allora, prima di fare una spesa, vuoi per la chiesa e vuoi per la canonica, dovete pensare che siete padri. Un papà non può comprarsi un oggetto di lusso quando il figlio non ha né scarpe né calze. Il papà dovrà prendere il pane, ma non può prendersi dei capricci eccessivi quando il figlio soffre la fame. Ah, figlioli miei, non si può arrivare a questo! E noi che abbiamo studiato il Vangelo e che ci vantiamo di essere gli uomini della carità, qualche volta possiamo arrivare a questa aberrazione: mentre nella parrocchia c’è chi patisce la fame, noi abbiamo il superfluo.

FAMIGLIA papà

DOTI UMANE responsabilità

MI146,4 [22-02-1967]

4 Allora, veniamo a noi: come educarci a questo?
Intanto dovete avere spirito di osservazione. Quando andate a casa, osservate le vostre mamme, non i fratelli e le sorelle perché tante volte, purtroppo, i fratelli e le sorelle hanno un po’ la nostra malattia; osservate come le nostre mamme sanno economizzare, come sanno dire: “No, è un peccato sprecare. Non sprecare, non sprecare: sprecando si offende il Signore!”. Poi, un’altra cosa: abbiamo detto che nella nostra Casa bisogna lavorare, bisogna che ci aiutiamo con il lavoro. La provvidenza non mancherà, ma, anche San Paolo, nonostante fosse ripieno di lavoro apostolico e occupato a predicare il Vangelo, eppure lavorava per guadagnare il suo pane, cosicché può rinfacciare, evidentemente in senso buono, e dire: “Io, pur potendo essere di peso a voi, non lo sono stato...”. Io non vi farò fare quello che ha fatto San Paolo: quando sarete a Crotone o a Monterotondo non vi farò fare una fabbrica di sporte e di tende per guadagnavi il pane. Consolati, don Luigi; neanche a pescare nel mare Ionio ti manderemo. Però ricordatevi che nella Casa dell’Immacolata dobbiamo trovare il modo - bisogna che il Signore ci apra una porta! - o con le case prefabbricate o con una fabbrica di poppatoi per bambini, bisogna trovare il modo di guadagnarsi il pane con il sudore della fronte. E quando dico sudore della fronte, figlioli, vuol dire fatica, vuol dire sacrificio: sacrificio per chi costruisce, sacrificio per chi vende, umiliazioni, umiliazioni, umiliazioni, perché lavorare vuol dire servire gli altri, vuol dire accettare umiliazioni, vuol dire accettare bastonate. Ah, figlioli, sapeste come le ho provate queste cose!

FORMAZIONE educazione

FAMIGLIA papà

SOCIETÀ

lavoro

COMUNITÀ

corresponsabilità

Renzo Meneghetti era un giovane della parrocchia di Araceli quando don Ottorino vi giunse come cappellano e fu suo figlio spirituale fino al 1972, ed evidentemente era impiegato in qualche fabbrica metallurgica.

Il signor Gino Consolaro passò in seguito a dirigere l’officina elettromeccanica dell’Istituto San Gaetano, ove lavorò fino all’età della pensione.

Berto Paulon era il titolare di una officina di riparazione di biciclette.

MI146,5 [22-02-1967]

5 Quando, agli inizi dell’Istituto, ho avviato la prima officinetta - permettete che vi dica queste cose come un papà le racconta ai suoi figlioli – ci domandavamo: “Che cosa facciamo fare ai ragazzi?”. Pellizzari mi ha dato da fare delle cinghiette, che erano dei rotoli di lamierino, come le molle dell’orologio: bisognava piegarle da una parte e dall’altra e metterci un piolino in mezzo, uno di qua e uno di là. Ne usciva una che era lunga, l’altra che era più lunga ancora, una più storta... i ragazzi facevano e a me toccava raddrizzarle fino alle una di notte, a raddrizzare il ferro perché si inchiodavano e non giravano. E dopo dovevo portare con la sporta questo mucchio di materiale a Pellizzari ad Arzignano: questo povero prete doveva andare a portare il lavoro fatto. Sappiate che mi sono sobbarcato a questo lavoro per un paio di anni. I ragazzi, lavorando, rovinavano il materiale: ci davano due quintali di materiale e invece di due quintali io ne riportavo un quintale e mezzo, e allora dovevo andare in mezzo al ferro vecchio da Renzo Meneghetti a prendere ferro per supplire a quello che mancava perché non si accorgessero che era stato rovinato tanto materiale e non ci dessero più lavoro. E quando arrivavo, dopo che avevano visto i pezzi lavorati, ne scartavano più della metà perché non andavano bene; c’era Gino Consolaro e qualche altro che chiudevano un occhio, e invece che scartarmene trecentocinquanta ne scartavano soltanto cento. Bastava poco per metterli a posto, e io che avevo lavorato tutta la notte per metterli a posto ritornavo a casa e dovevo metterli a posto di nuovo. Figlioli, non sapete che cosa costa il pane! Capite?
Dopo abbiamo cominciato con le biciclette, cioè a saldare le biciclette: i ragazzi limavano le saldature e ne rovinavano metà. Io raccomandavo: “Ragazzi, state attenti!”, e i ragazzi rovinavano. E allora bisognava andare a chiedere scusa a Berto Paulon : “Per favore...”, e allora lui rifaceva le saldature, e diceva: “Però, adesso, basta perché...”.

AUTOBIOGRAFIA Araceli

CONGREGAZIONE storia

SOCIETÀ

lavoro

FORMAZIONE educazione

L’assistente Giuseppe Filippi era diplomato come perito elettrotecnico

L’assistente Pietro Grendele fu uno dei primi collaboratori nei tempi eroici dell’Istituto San Gaetano.

Nel testo registrato si ascoltano, a questo punto, sonore risate

Si tratta, forse, di Renzo Dabionelli che all’epoca frequentava il 1° anno del corso liceale

Evidentemente era una officina elettromeccanica di Marano Vicentino (VI).

L’assistente Giovanni Orfano frequentava il 1° anno del corso teologico e allo stesso tempo lavorava nella tipografia dell’Istituto San Gaetano

MI146,6 [22-02-1967]

6 Poi abbiamo cominciato con i motori elettrici: “Filippi , ti ricordi il primo motore?”. È stato l’assistente Pietro a fare l’avvolgimento, con la lamiera dei barattoli: bisognava tenerlo fermo perché non andasse di qua e di là. Abbiamo cominciato con dieci motori, e furono venduti tutti e dieci i motori perché la gente si accaparrava materiale per paura che ci fosse l’inflazione. Gli acquirenti li hanno tenuti fermi; dopo un anno e più hanno provato a metterli in moto, ma erano tutti arrugginiti e non erano buoni neppure come ferro vecchio. E allora abbiamo cominciato a portare i motori ai clienti. Ah, figlioli miei! Quando, caro Renzo , arrivavo da Berto a Marano, alla casa vecchia, con il camioncino, li portavamo su e li provava: “No, questo è troppo rumoroso; questo non va bene”. Si metteva con uno straccio per fermarlo e se riusciva a fermarlo diceva: “Niente, rende poco!”. Su dieci motori che si portavano, bisognava tornare a casa con sei o sette. Dopo li facevamo ripassare di nuovo... Era una giornata buona quando ne mettevamo tre o quattro di buoni per primi e diceva: “Ah, questi sì vanno bene!”; qualche volta erano gli stessi di prima! Ecco, facevo così... quante volte! In mezzo a una partita di venti motori, ne mettevo tre o quattro di buoni alla volta, e se li prendeva tutti senza neppure toccarli. Qualche volta c’erano le ventole che sbattevano e allora bisognava smontarli; altre volte il rotore sfregava e allora dicevo: “Prima andava bene. Dopo si è messo a fare le bizze...”.
Ah, figlioli miei, figlioli miei, questa vita dovete farla anche voi, dovete farla anche voi! Guardate in tipografia: “Giovanni , ti capitano mai di queste cose in tipografia?”. I primi anni qualche ditta mandava indietro il lavoro perché era un po’ storto, perché il colore della carta non era quello desiderato... e bisognava tacere perché eravamo nel bisogno. Quante volte venivano di qui pacchi di carta per essere usati come carta da malacopia! Avevano sudato sangue per terminare il lavoro commissionato, e dopo sarebbe venuta la voglia di prendere il cliente e di buttarlo fuori dalla finestra... E bisognava tacere e offrire al Signore.

AUTOBIOGRAFIA Araceli

CONGREGAZIONE storia

MI146,7 [22-02-1967]

7 Gesù ha provato l’umiliazione di uno che lavora, figlioli, Gesù l’ha provata! Forse, dopo aver fatto una carriola, doveva tenersela, o fare una sedia e dover tenersela! Un lavoratore prova queste sofferenze, perché il lavorare costa; bisogna che il lavoro sia fatto con questo peso, se no non è più lavoro. Mettete in preventivo questo! Se il lavoro non è bagnato di sudore, se non è bagnato di umiliazione, se non fa sentire il peso, non è lavoro. Questo vi farà capire, allora, quanto costino quelle mille lire che avete in mano; questo vi farà capire quanto costino quelle mille lire che qualche povera donna vi porterà in sacrestia: “Mi fa un piacere, padre, mi dice una Santa Messa? Le do altre mille lire per la chiesa. Le consegno inoltre cinquemila lire perché ieri è stato fatto una funerale e una ufficiatura”. Si va a casa sbuffando: “Oh, cinquemila lire!”. Piano: bisogna pensare che cosa costano quelle cinquemila lire, bisogna pensare al bilancio familiare di quella povera donna che dice: “Poverini, i preti, poverini... Quei santi figlioli devono pur vivere... Diamoli, diamoli questi soldi perché se li meritano: sono dei santi figlioli!”. Sì, ma ricordatevi che forse per quella famiglia è un sacrificio!
San Paolo lavorava, San Paolo sudava: era di corsa tutto il giorno, e alla sera e di notte lavorava per guadagnarsi il pane. Nella nostra Congregazione si deve parlare di carità e di santificazione del lavoro, ma non possiamo parlare di carità se non abbiamo carità verso il prossimo guadagnandoci il pane con il sudore della nostra fronte. La nostra vita è abbastanza comoda, sapete, è comoda, è comoda; non facciamo gli eroi, non crediamo di essere vittime e martiri... pensateci bene: è comoda!

GESÙ

lavoratore

SOCIETÀ

lavoro

PENITENZA sacrificio

‘Meridiano 12’ era una rivista per ragazzi, edita dai Salesiani, che don Ottorino leggeva con piacere

Don Ottorino, quando parlava, coloriva spesso il discorso con frasi onomatopeiche, come in questo caso in cui si descrive il poggiare del denaro sul tavolo davanti a qualcuno

Giampietro Fabris frequentava all’epoca il 3° anno del corso liceale

MI146,8 [22-02-1967]

8 Pensate a qualche giovane che vive nel mondo e che è studente. Ieri sera leggevo in ‘Meridiano 12’ la storia di un tale, che poi ha fatto fortuna in America e adesso è morto, che voleva studiare, ma suo papà era contrario. Allora ha fatto un patto con suo papà: “Tu mi fai studiare e poi io ti restituisco tutti i soldi, te li restituisco l’uno sull’altro, tan, tan, tan ...”.
Nelle famiglie dove ci sono cinque o sei figlioli, uno che studia deve domandare i soldi per comprare un libro, per l’abbonamento del treno, e questo a spese dei fratelli. Sarebbe duretta, sapete! Invece qui trovate tutto fatto, tutto comodo, tutto pronto... figlioli, pensateci! Non è per rinfacciarvelo, ma questo è un dovere paterno! Non vi rinfaccio niente, per carità, ma devo dirvi queste cose perché vi rendiate conto com’è la situazione. Immaginiamo che uno di voi, Fabris , fosse in famiglia, studente a carico dei fratelli. Non si vergognerebbe nel restare in casa a studiare mentre gli altri lavorano? Gli altri lavorano, le sorelle lavorano, mentre lui fa il signorino che studia. Tutto va bene finché uno è piccolo, ha tredici o quattordici anni, ma quando cominciano i diciassette, i diciotto, i vent’anni gli altri dicono: “Bisogna aiutare... bisogna aiutare”, altrimenti si sentono umiliati.

FAMIGLIA

DOTI UMANE responsabilità

Modo di dire popolare veneto per indicare persone che vivono senza preoccupazioni per il proprio mantenimento e in modo irresponsabile: tanto, è il capo famiglia che pensa a tutto!

Don Ottorino scherza parafrasando in latino l’espressione paolina di 1 Corinti 11,30.

Il riferimento è forse all’assistente Antonio Ferrari, che stava preparandosi a partire per il Chaco (Argentina).

MI146,9 [22-02-1967]

9 Fratelli, abbiamo il dovere di fare qualche cosa e questo è un dovere dinanzi a Dio. Abbiamo il dovere, nella nostra giornata, nella nostra settimana, di trovare qualche ora e dire: “Io devo collaborare con il mio sudore, con il mio sacrificio per mantenermi e per mantenere la casa!”. Siamo una famiglia e dobbiamo sudare tutti. Qualcuno potrebbe dire: “Io faccio il mio lavoro di studiare, faccio il mio lavoro lì!”. Sì, ma non basta: tu devi collaborare per mantenerti. Mi pare di essere nello spirito del Concilio, o sono fuori strada, forse? Questo è lo spirito del Concilio! Non dobbiamo essere figli di famiglia , figlioli; qui si tratta che, a un dato momento, dobbiamo sentirci tutti papà di famiglia.
Vi ho detto tante volte che ognuno di voi deve essere superiore generale, cioè ognuno di voi deve prendere coscienza della responsabilità che ha dinanzi a Dio perché lo spirito della Congregazione sia realizzato in sé e negli altri. A un dato momento anche il più giovane deve dire: “Io sono come vuole la Congregazione, come vuole Dio?”, e se non lo sono devo presentarmi e dire: “Guardate, mi pare di non essere a posto”, e devo svegliare i miei superiori. Infatti “inter nos, specialmente fra noi vecchi, sunt multi imbecilles et dormiunt multi...” : noi abbiamo bisogno di essere svegliati dai giovani. Non abbiamo paura che i giovani ci sveglino; però, che ci sveglino secondo lo spirito di Dio, che ci aiutino a fare la volontà di Dio, che ci aiutino, che ci scuotano. ”Deo gratias, Deo gratias!”, e allora noi prenderemo forza dalla loro giovinezza. Ma, ricordatevi tutti: dobbiamo fare! Un domani, quando sarete sacerdoti o diaconi, il vostro lavoro sarà un altro, un altro il sudore della vostra fronte. Non credo che ai nostri tempi valga la pena che un prete si metta a fare sporte per mantenersi, ma se fosse necessario un domani, in un luogo di missione o in qualche altra parte, ci si può mettere a lavorare insieme qualche oretta per mettere a posto un laboratorio senza timore di levarsi la veste e di indossare la tuta. Che non capiti, per esempio, un domani, nel Chaco o in qualche altra parte, che qualcuno dica: “Io sono prete, arrangiatevi...”. Se c’è un’oretta libera, un po’ di ricreazione da fare alla sera, e c’è qualche cosa da mettere a posto, penso che non si debba aver paura di sporcarsi le mani in casa nostra, perché sarebbero guai se per caso succedesse così, caro Antonio! Non si tratta, adesso, di dire: “Io vado a fare il contadino!”, ma se un domani, alla sera, uno trova una mezz’oretta per dare acqua all’orto per produrre un po’ di patate o qualcosa d’altro lo faccia... questo non è contro lo spirito della Congregazione e lo spirito del Concilio, e se in quel caso vi levate la veste don Ottorino non vi rimprovererà.

COMUNITÀ

corresponsabilità

CHIESA Concilio

DOTI UMANE responsabilità

CONGREGAZIONE spiritualità

MI146,10 [22-02-1967]

10 Fratelli, scusate se la meditazione è stata sull’inizio della prima parola; d’altra parte non è il caso che andiamo avanti. Ormai la mezz’ora è quasi passata. Vi raccomando una cosa: su questo punto pregate il Signore che ci illumini su che cosa dobbiamo fare di concreto, perché è proprio il caso di dire: “Aiutati che il ciel ti aiuta!”. La provvidenza di Dio non ci abbandonerà di sicuro; difficoltà ne avremo nella nostra casa, ma Dio non ci abbandonerà. Dio, però, vuole che facciamo qualche cosa anche noi, perché quando uno ha ricevuto da Dio due braccia, ha ricevuto l’intelligenza, deve sfruttare, deve mettere a disposizione le sue braccia e la sua intelligenza per collaborare con Dio affinché il campicello, il piccolo campo che Dio gli ha dato, possa portare un po’ di frumento o qualche altra cosa. Se lui pretende che il frumento cresca da solo, il Signore non glielo farà crescere perché ha stabilito così nella sua provvidenza.
Ora abbiamo l’estate, il periodo di vacanze in montagna, il periodo di riposo, ma ricordatevi che deve essere una collaborazione. Lo so che vorreste dirmi: “Don Ottorino, ci dica lei che cosa dobbiamo fare: noi siamo pronti! Ci dica che lavoro dobbiamo fare!”. E io vi dico: “Ditemelo voi: pregate il Signore e... trasmettete!”.

PROVVIDENZA

DOTI UMANE

DOTI UMANE collaborazione

VOLONTÀ

di DIO ricerca della...