MI159,1 [5-04-1967]
1 “Per questo, non potendo più resistere, preferimmo di restarcene soli in Atene e mandammo Timoteo, nostro fratello e ministro di Dio nella predicazione del vangelo di Cristo”. Dovete perdonare perché ieri sera non ho fatto a tempo a preparare la meditazione; sono cascato nella tentazione di leggere un altro libro, il Vangelo. Mi è venuto in mente dopo che dovevo prepararmi per la meditazione, per cui ora la prepareremo in compagnia. “Paolo aveva appena pregato Silvano e Timoteo di portarsi da lui, da Berea ad Atene; ma la notizia delle pericolose persecuzioni a Tessalonica rendono nuovamente necessaria la separazione. Il suo cuore ne è straziato. La decisione di restare solo ad Atene non gli è certo facile. Timoteo gli è fratello; anzi l’apostolo lo chiama anche ‘suo diletto figlio’. Tra lui e il suo ‘collaboratore’ intercorrono infatti rapporti di cordialità che nulla tolgono alla sua autorità. Egli si sente unito ai suoi coadiutori da legami fraterni e paterni insieme”. Qui è il caso di sottolineare un particolare: Paolo ha predicato il Vangelo, ha predicato la carità, ha predicato tante belle virtù, ha due tre collaboratori e arriva persino a dire: “Colui che consola tutti, ha consolato anche me con l’arrivo di Tito” . Sarebbe il caso di domandarsi perché si separi da Timoteo. È una cosa da chiarirsi. Anche nella nostra vita comune, nella nostra Famiglia, noi dobbiamo amarci, volerci bene nel vero senso della parola, volerci bene fino al punto che ognuno di noi, indistintamente, deve essere pronto a dare la vita per il fratello. Se fosse necessario il mio sangue per Raffaele o per Luciano o per un altro, per me deve essere indifferente; io lo devo dare. Uno ha bisogno? Occorre la vita? E io te la do, non si discute. Ma pretendere poi che ci sia uguaglianza perfetta nelle azioni, è umanamente impossibile, perché non potete pretendere che quelli che sono a Estanzuela, per esempio, don Ugo e don Gianni, abbiano gli stessi rapporti con Antonio Pernigotto come li hanno con Severino e con Lino che lavorano insieme con loro, a distanza di qualche chilometro; è chiaro che fra loro si stabilisce un rapporto di collaborazione che li lega anche in una forma umana sensibile. Questo non è peccato. Se loro fanno l’esame di coscienza non possono dire: “Io forse voglio più bene a Lino e a Severino che non a Antonio Pernigotto, che non a Vinicio...”. Finché eravamo in cinque o sei, o in otto o dieci, c’era anche una collaborazione nel senso di lavoro in comune, per cui essendoci lavoro in comune c’era comunione di vita. Figlioli cari, capite chiaramente che questo sarà impossibile mano a mano che ci separeremo perché diventeremo molto più numerosi. Può darsi, ricordatevelo, che un giorno neanche ci conosceremo fra membri della stessa Congregazione, come è successo con i cristiani. All’inizio c’erano dodici Apostoli, e questi dodici vivevano insieme, mangiavano in compagnia, vivevano in compagnia; a un dato momento si sono separati. E allora troviamo il famoso Abercio che dice: “In qualunque parte io sono andato ho trovato fratelli nati da un “pesce”... nati da una Vergine... che mangiavano un “pesce” nato da una Vergine... Ovunque ho trovato fratelli”.COMUNITÀ
fraternità
CROCE sangue
COMUNITÀ
comunione
MI159,2 [5-04-1967]
2 Dobbiamo fra noi sentire questo senso di fratellanza, di fraternità, per cui io non solo do la vita per ciascuno di voi, ma devo essere pronto a interpretare bene le azioni di ognuno di voi. Qualunque azione io veda, in essa devo vedere il lato positivo; anche se c’è un solo centesimo di bianco, devo vedere il bianco: questa è carità! Dopo non devo essere sciocco e non vedere i punti neri, per cui se io vedo Raffaele che ha fatto un’azione che non doveva fare, io devo scusarlo in tutti i modi e in tutte le forme, ma poi la carità mi dirà di chiarire: “Senti, Raffaele. Per carità, capisco che tu non hai fatto per cattiveria e infatti io ho visto e vedo la parte bianca, però, sappi che quell’azione può essere vista così, così e così...”, e tiro fuori con calma anche tutti gli altri novantanove punti possibili. Ma io penso che lui l’ha fatta per il centesimo punto, cioè per il punto bianco, non per il punto nero. Mi capite? Questa è fraternità, questa è carità! Non si tratta di essere stupidi. Se uno bestemmia, io non posso dire: “Oh, è una giaculatoria!”. No, se uno bestemmia, io dirò: “Poverino, forse crederà di aver detto una giaculatoria... gli sarà sfuggita. Chissà quanto male sta, poverino!”, però è materialmente una bestemmia. Ma io interpreterò bene, scuserò, andrò vicino e dirò: “Raffaele, senta... o Ugo , senti... o Vinicio, senti, caro Vinicio, ti è sfuggita quella parola, non te ne sei neppure accorto, per carità, sta attento!”, ma con fraternità! E questa è la carità che deve regnare in tutta la nostra Famiglia. Man mano che cresceremo, per forza, non ci sarà più lo stesso rapporto. Se un domani faremo un noviziato in Brasile, e se quelli del Brasile faranno il loro noviziato e poi andranno all’interno del Brasile o in qualche altra parte, forse, in terra, non ci vedremo neanche mai. È certo che alcuni Gesuiti non conosceranno, non vedranno mai altri Gesuiti; certi cristiani moriranno senza conoscere altri cristiani. Ma noi dobbiamo stabilire una Famiglia tale per cui, quando domani incontriamo un confratello in America o in Russia o dove che sia, incontrandolo dobbiamo sentirci aprire il cuore, come diceva Abercio: “Ho trovato fratelli, ho trovato fratelli ”. Dobbiamo sentire che siamo dello stesso colore, della stessa casa; dobbiamo sentirci fratelli, farci festa come intimi della stessa famiglia: questo è lo spirito che ci deve essere fra noi, questo è lo spirito che ci deve animare, e sarà poi naturale avere un po’ il senso di collaborazione.COMUNITÀ
fraternità
CARITÀ
PECCATO difetti
ESEMPI comunità
COMUNITÀ
correzione fraterna
COMUNITÀ
MI159,3 [5-04-1967]
3 Esaminiamo, adesso, il mio caso particolare, che un domani può accadere in una Casa dove ci possono essere sei o sette o otto fratelli fra sacerdoti e religiosi. È naturale che non si possa fare con tutti la stessa cosa; sarà naturale che due o tre abbiano delle mansioni e che altri due o tre ne abbiano delle altre. E allora guardiamo a questa Casa che è piuttosto grande. Scusate se io tocco un tasto che è bene che io tocchi perché può prestarsi a delle confusioni. La Casa dell’Immacolata è casa di formazione, ma non è solo casa di formazione; qui c’è anche la direzione di tutta la “baracca” e perciò ci sono tutti i rapporti che la Congregazione ha con l’esterno civile, con l’esterno religioso e con altre Case, con tutte le rogne e tutte le convenienze che ci vogliono, dagli auguri di Natale e Pasqua ai ringraziamenti... Per esempio, è venuta una persona che ha portato centocinquantamila lire e le ha date a Ruggero ; le ho telefonato ieri mattina, ho cercato di rintracciarla, ed è arrivata con una busta... sono tutte cose che non centrano certamente con la casa di formazione. Se don Ottorino fosse solo per la casa di formazione, allora dovreste esigere da don Ottorino una eguaglianza. Se io fossi solo per la casa di formazione dovrei avere un vicerettore e due o tre padri spirituali per fare un corpo dirigente dove si studia il metodo educativo; poi, in un secondo gradino gli assistenti, e in un terzo tutti gli altri. Allora non ci si potrebbe meravigliare se io stessi insieme con il vicerettore e con i tre superiori a discutere perché staremmo discutendo i nostri problemi. Non dovreste meravigliarvi se io radunassi gli assistenti, come in seminario dove il vicerettore e i superiori si radunano fra di loro, poi i prefetti che seguono direttamente tutti i ragazzi che si stanno formando. Quella sarebbe una graduatoria naturale, naturalissima, e quella sarebbe la trama, e se un domani il rettore invece di rapportarsi con il vicerettore lo facesse con un ragazzo di quinta ginnasio o di liceo sarebbe fuori di posto. Ma, nel caso nostro, qui abbiamo la direzione della Congregazione, che dovrebbe essere una cosa a parte, non dovrebbe centrare niente con la Casa dell’Immacolata. Perciò don Ottorino non dovrebbe essere qui, dovrebbe essere, magari, nella stalletta del maiale, non importa niente, ma non dovrebbe essere nella casa di formazione.CONGREGAZIONE Case della Congregazione
FORMAZIONE case di formazione
MI159,4 [5-04-1967]
4 Per esempio, don Calabria non è mai stato nella casa di formazione; don Bosco in casa di formazione c’è stato i primi giorni, i primi anni, poi se n’è andato dalla casa di formazione e ha lasciato ad altri il compito della formazione. Io, invece, ho assunto personalmente la responsabilità della formazione, ma nessuno degli ultimi fondatori, cioè di coloro che ultimamente hanno cominciato Famiglie religiose, né il canonico Annibale di Francia, né don Guanella, né don Orione , nessuno si è preso in mano la formazione dei propri Religiosi, ma l’hanno affidata ad un altro: loro si limitavano alle direttive generali, si sono presi alcuni collaboratori e con quei collaboratori hanno diretto la Congregazione. Io, invece, ho piantato il quartier generale in mezzo a voi, in casa, in famiglia: ci siamo piantati qui, in mezzo ai giovani, ma questo comporta chiaramente, ed è naturale, che con quei due o tre o cinque collaboratori più stretti ci sia il bisogno di trattare di più, di chiacchierare un pochino di più di certi problemi: questa è una cosa umanissima. Per esempio, il padre provinciale dei Gesuiti ha piantato il suo quartier generale in una villetta a Verona, dove non c’è né Istituto né niente; sono solamente in quattro o cinque. Non so quanti siano; don Pietro, quanti sono? Ci sono solo quelli addetti alla direzione della “baracca”, cioè la curia, e basta. Loro sono là, cenano insieme, discutono insieme; se hanno da trattare un problema lo trattano, e nessuno si meraviglia perché sono lì: sono gli addetti a quei dati uffici. Io mi sono trovato in una condizione di sfavore in questo senso, perché quando io mi preparavo una torta me la portavano via. Ho cominciato a preparare don Marcello: è andato via; ho preparato un altro: è andato via. A mano a mano che preparavi gli elementi, sia assistenti, sia sacerdoti, andavano via. Perché? Perché bisognava incominciare. Adesso ho cominciato con don Pietro e quello va a finire al Chaco, anime di Dio! “Optime, optime!”. Perché? Perché, intanto, prepariamo per le missioni la Congregazione, alla quale abbiamo dato il carattere missionario, per il bene che si fa alle anime e per le vocazioni. È chiaro che questo mi ha messo nella condizione di dovermi servire per mansioni un po’ delicate di giovani, senza offendere adesso i presenti. Per esempio, qual’è quella Congregazione che affida la segreteria generale a un giovanotto di vent’anni? Tu, don Pietro, che hai visto di qua e di là, puoi attestare che di solito chiamano a esercitare questi uffici persone di una certa età, anche perché in segreteria ci sono cose un po’ delicate, rapporti segreti, lettere e ‘bagoli’ . Nella nostra situazione abbiamo detto: per salvare le anime bisogna anticipare i tempi. Abbiamo cominciato con un maestro dei novizi che non aveva ancora l’età canonica e che è stato dispensato dalle deficienze, e siano andati avanti sempre a base di deficienze: deficienze di qua, deficienze di là, dispensando a destra, dispensando a sinistra.FORMAZIONE case di formazione
CONGREGAZIONE fondatore
CONGREGAZIONE collaboratori
CONGREGAZIONE missione
MISSIONI
MI159,5 [5-04-1967]
5 Ora, avendo preso dei giovani per queste mansioni, è chiaro che il giovane presenti degli aspetti non sempre bianchi, perché il giovane è ancora giovane e allora, insieme con le belle doti, presenta anche i suoi difetti, difetti che fanno soffrire anzitutto colui che vi parla. Quando io prendo un giovane e gli do una mansione, sono io il primo a soffrirne la mancanza di esperienza appunto perché è ancora giovane, sono io il primo a fare il sacrificio di avere un giovane invece di avere uno che ha maggiore esperienza. Rendetevi conto di questo! Sono io il primo che dice: “Se avessi uno più maturo, si arrangerebbe in quel compito senza che glielo ricordassi, anzi sarebbe lui a ricordarlo a me e mi darebbe una mano”. Avendo scelto i giovani sapevo già in partenza che io dovevo sacrificare qualcosa, ma l’ho fatto perché nelle missioni hanno bisogno, in altri posti hanno bisogno: ci vuole sacrificio, e allora facciamolo come sacrificio! Ma questo può far sorgere negli altri due sentimenti. Anzitutto un senso di invidia: “Quello è sempre là! Eh, sempre quello, eccolo là, sempre là, lui!”. Anime di Dio, non posso cambiare uno che è addetto a scrivermi le lettere o assolvere certe mansioni. E allora sorge un senso di invidia, un’invidia che porta poi a vedere i difetti di questi giovani: “Almeno fossero i migliori e, invece, hanno i loro difetti!”. Ma vedo anch’io che hanno dei difetti; lo sapevo già prima di prenderli che avevano dei difetti, perché sono giovani e qualche marachella la commettono; qualche pasticcio lo facciamo anche noi vecchi, figuriamoci i giovani! Invece avrei potuto dire: “Beh, una missione di meno; don Pietro non va in missione; l’altro non va in missione! Ci mettiamo in tre o quattro o cinque, per esempio, dove sono le signorine e gli ospiti; ci mettiamo là, mangiamo là e trasportiamo là gli uffici, e non si discute. Voi ci vedrete una volta alla settimana. Don Guido e don Luigi si arrangiano a fare la meditazione... Io verrò una volta ogni tanto... Don Calabria, anche se lui era un santo e io sono un mascalzone, i suoi giovani lo vedevano una volta ogni morte di Papa. Allora anche noi saremmo circondati dalla nostra aureola. Invece, stando in mezzo a voi, è logico, figlioli, è logico che io senta il bisogno di comunicare se vado via a trattare delle cose, e in genere io vi comunico ogni cosa. Se vado a Castelvecchio, quando ritorno a casa racconto a tutti quello che è successo. Ho tenuto segreti in casa? No! Quando alla domenica sera mi domandate qualcosa vi dico tutto; io sfido qualunque Famiglia religiosa, di qualunque parte, a dire tutto come facciamo noi, perché qualunque cosa mi domandate alla domenica sera, io ve la dico.CONGREGAZIONE collaboratori
DOTI UMANE esperienza
DOTI UMANE maturità
VIZI invidia
COMUNITÀ
critica
COMUNITÀ
MI159,6 [5-04-1967]
6 Ma poi c’è il demonio, il quale può portare alla critica e all’invidia, e questo ve lo dico perché è successo ripetutamente. A un dato momento tu scegli due o tre collaboratori, che non m’interessa chi siano perché se voi mi dite: “No, forse sono meglio quegli altri due o tre!”, io cambio, perché uno che è in testa ha bisogno di due o tre collaboratori, anche fisicamente, per comunicare, per metterli al corrente dei problemi, altrimenti ad un dato momento si salta, non si resiste. C’è il bisogno di trattare insieme certi problemi. Porto un esempio molto materiale, molto semplice, perché vi rendiate conto. L’altro giorno sono andato a Castelvecchio, come avete sentito, e ci sono andato perché hanno telefonato che andassimo su, io e Venco. Quando sono ritornato a casa ho trovato don Aldo che mi ha chiesto: “E, allora, come è andata?”, e gli ho raccontato. Dopo, sono state più di dieci le persone alle quali ho raccontato la stessa cosa, alle quali ho dovuto ripetere la stessa storia. Pensate che questa cosa non pesi niente... essere veramente stanchi e uno mi domanda e io ripeto la stessa storia, e poi un altro mi domanda e io gliela ripeto... sempre la stessa cosa, e cercare di dirla con carità? Forse può darsi che uno abbia detto: “Mi dice la cosa in due parole, così... manca di carità!”. Ora io mi sono sforzato, ma ero stanco e tuttavia mi sono sforzato di dirla con carità, ma tu capisci che uno sente il bisogno di dirla a uno solo e basta.CROCE Demonio
VIZI invidia
COMUNITÀ
critica
CONGREGAZIONE collaboratori
MI159,7 [5-04-1967]
7 Amici miei, amici miei, perché vi dico questo? In questi ultimi tempi mi sono accorto, e potrei portare le prove di quello che dico, che il mio agire è stato visto con un occhio un pochino nero. Ho ascoltato anche qualche critica: “Sono sempre quelli... sempre quei tre o quattro, sempre quelli, i preferiti...”. Può darsi che io abbia sbagliato nel sistema e nella forma; per carità, non intendo essere perfetto. Ma ricordatevi che è impossibile per uno che è in testa non avere alcuni collaboratori! E voglio dirvi che avere alcuni collaboratori non vuol dire avere preferenze per alcuni. Se Antonio Pernigotto va a lavorare in cucina, non è perché io abbia delle preferenze per lui perché va a lavorare, va a tagliare la carne. Dovete capire che collaborazione vuol dire sacrificio. E allora è logico che se fuori del refettorio ti viene in mente una cosa, prendi uno e gli affidi l’incarico. Se mi viene in mente di andare dal vescovo di Monterotondo che ultimamente mi ha detto: “Mi mandi la lettera di richiesta per erigere canonicamente la Casa”, è logico che prendo don Pietro e gli dico: “Don Pietro, senti, guarda che...”; dopo mi viene in mente un’altra cosa... È logico che questo avvenga, è naturale! Se, ad esempio, fuori dal refettorio don Pietro invece di venire da me scappa via, a me resterebbe quell’affare in sospeso che mi dovrei portare fino a domani mattina o a posdomani. Chi è in testa ha bisogno di due o tre collaboratori, ma non che fuggano, bensì che stiano vicino per trattare insieme le cose. Non so se rendo il pensiero. In caso contrario non si lavora, non si rende, perché è una testa sola che lavora, e dopo ci si dimentica e, allora, passano delle cose che non devono passare. Per esempio, fate attenzione a un particolare, e scusate se dico questo, ma anche queste realtà fanno parte della meditazione. Ad Asiago, al Tiro a Segno, c’è da fare la denuncia del fabbricato al Catasto; al Catasto è stata denunciato solo metà di quel fabbricato, e adesso c’è l’altra metà da denunciare, e bisognerebbe farlo entro i due anni da quando è stato dato il permesso di inizio dei lavori; bisognerebbe fare la domanda per essere esenti dalle tasse, perché c’è l’esenzione dalle tasse per vent’anni, diciotto o vent’anni. Non è stato fatto ancora niente per la seconda metà della casa, per cui ho mandato su Filippi. Capite chiaramente che io ho bisogno di collaboratori. A Val Giardini il pezzo di terra che ci ha regalato il Comune per fare la casa non è ancora di proprietà dell’Istituto , sicché la casa che abbiamo costruito su quel terreno è ancora di proprietà del Comune. Adesso c’è il problema di come fare la donazione della proprietà all’Istituto perché il Comune si trova nella situazione che deve donare anche la casa. E allora occorre una delibera della Prefettura... È inutile, cari; il cervello di una Congregazione ha bisogno di collaboratori per questo e per mille altre situazioni di questo genere.CONGREGAZIONE collaboratori
COMUNITÀ
critica
MI159,8 [5-04-1967]
8 Ultimamente, negli ultimi mesi, mi era venuta la tremenda tentazione di cambiare tutta la conduzione della Casa, di prendermi tre o quattro collaboratori e di mettermi in un altro posto fuori da qui. Perché? Perché non si può perdere tempo a causa di bambinate. Quando vedi che non riesci a seguire un affare, un altro, un altro ancora, e inoltre senti criticare, non si può continuare. Scusatemi tanto; datemi degli altri collaboratori e vedremo, ma io ho bisogno di collaboratori, io ho bisogno di chi mi aiuti; da soli non si può fare, non posso tener su da solo la direzione della Congregazione, neanche per sogno. Ho bisogno che vengano avanti uomini che diano una mano. San Paolo stesso ha due o tre collaboratori, ed è logico che si stabilisca tra loro anche un rapporto di amicizia. Questo sarà anche per voi. Per esempio, io vedo che tra quelli che vanno al Chaco comincia già un rapporto di amicizia; ho persino stabilito che l’impegno di vita lo facciano ogni settimana fra di loro, insieme; fanno insieme settimanalmente il loro ‘impegno di vita’ perché loro devono maturare un rapporto di intesa nel lavoro. C’è un denominatore comune che è lo spirito della Congregazione, che è lo spirito cristiano, ma dopo ci vuole anche una intesa nel lavoro. Per esempio, anche nell’assegnare gli uomini nelle varie Case mi pare di essermi sempre sforzato di mettere insieme degli uomini che possibilmente vadano d’accordo tra loro. È una cosa umana, ma ci vuole attenzione a certi caratteri. Pur essendo santo Paolo e santo Barnaba, tuttavia per la questione di Marco non andavano d’accordo; e allora mandiamo Marco con Barnaba, e Paolo lo mandiamo con Sila e la storia è finita. Un domani, anche nell’assegnazione dei posti e degli uffici, noi cercheremo più che sia possibile di combinare i caratteri, di combinare un pochino gli amici se è possibile, ma sempre per la stessa causa; amici però per la stessa causa, non per giocare a bottoni. Io vi pregherei di guardare le cose con occhio un pochino più aperto. Per esempio, adesso c’è Bottegal che viene in ufficio: supponiamo che domani vediate che Bottegal fa il pagliaccio, da buoni fratelli bisogna dirgli: “Ti pare di fare un piacere a don Ottorino comportandoti così? Ti sembra giusto fare questo?”. Questa è carità! Vi accorgete di qualcosa che non va? Dovete parlarne con coraggio: “Don Ottorino, ho osservato che Bottegal viene lì e approfitta di essere in ufficio e ruba dei soldi e dopo va a comprarsi le paste di qua e di là, paga le paste ai suoi amici. Mi sembra che questo non sia una cosa che vada bene... Io questa cosa gliela dico perché me ne sono accorto e perché mi pare sia un dovere dirgliela”. Ma certo; queste cose si dicono! Giusto? Vi accorgete che approfitta di quell’incarico per fare lo scansafatiche... magari ha da fare, ma quando si tratta di andare a giocare va a giocare e quando c’è da fare la pulizia trova la scusa: “No, devo andare in ufficio!” o qualcosa del genere, si deve dirglielo da buoni fratelli, senza tante storie. Non pretendo che uno perché ha messo piede lì o ha messo il piede là sia perfetto.CONGREGAZIONE collaboratori
CONGREGAZIONE fondatore
COMUNITÀ
critica
COMUNITÀ
fraternità
COMUNITÀ
promozione fraterna
COMUNITÀ
MI159,9 [5-04-1967]
9 D’altra parte, tanto per prendere il caso di Bottegal, penso che non possiate rimproverarmi di non avere bastonato i miei collaboratori, perché quelli che mi venivano vicini hanno preso più botte di tutti, sempre. Don Luigi , sei stato proprio il preferito? Qualche volta le hai prese? C’è qualcuno che può forse dire che è venuto vicino a me e non le ha prese? Penso, almeno mi pare, che non possiate dire: “Ha un debole per... Quello non le piglia mai, non le prende più!”. No, vorrei proprio che a questo proposito siate un po’ più semplici, perché noi abbiamo come distintivo la carità, come programma la carità, e poi ci lasciamo abbindolare dal demonio: vediamo la pagliuzza a destra e a sinistra e non ci accorgiamo di quella benedetta trave di cui parla nostro Signore Gesù che è davanti al nostro occhio. Ci accorgiamo, ci pare, ci pare, ci pare... e, purtroppo, non ci accorgiamo che le cose sono diverse. Occorre molta più semplicità e molta più collaborazione perché stiamo lavorando per la stessa causa. Tutti coloro che siamo qui non abbiamo altri interessi; né io né voi abbiamo altro interesse se non l’interesse di Cristo, se non che Cristo abbia da trionfare, se non portar via le anime al demonio e portarle a Nostro Signore, se non consumarci completamente per il Signore. Ora, anche se qualche volta ci si pesta i piedi per sbaglio, se qualche volta si potrebbe fare meglio, dobbiamo saper passare sopra perché non è per cattiveria. Stiamo lavorando, stiamo spegnendo un incendio: l’incendio del demonio. Non possiamo fermarci a guardare precedenze o non precedenze, problemi e non problemi: bisogna tirarsi su le maniche e lavorare, lavorare, lavorare perché il demonio non dorme. Questa è la realtà! Mentre una casa brucia sarebbe ridicolo mettersi a discutere perché prima c’è il caporale, poi c’è il caporalmaggiore, dopo c’è quell’altro... e intanto la casa brucia. Non ci devono essere né caporali, né caporalmaggiori: c’è bisogno di un secchio d’acqua per uomo, e... avanti Savoia! Avete qualche obiezione da fare in proposito? Ditela! Don Pietro? Zeno? Venco? Berto? Abbiamo circa otto minuti: nessuno ha niente da dire? Gaetano? Natalino? Vedo quel sorriso che hai... Anime di Dio, se avete qualcosa da dire, si dice da buoni fratelli. Niente? Don Luigi, sei a posto? Bertelli Luciano? Fate la proposta e cambiate la direzione della “baracca”... Don Pietro, la portiamo al Chaco? Allora, andiamo avanti.CONGREGAZIONE collaboratori
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correzione fraterna
COMUNITÀ
critica
CONGREGAZIONE carisma
CROCE Demonio
COMUNITÀ
corresponsabilità
MI159,10 [5-04-1967]
10 “Paolo sottolinea che il “fratello” Timoteo è ministro di Dio. Pone cioè il suo collaboratore in intimo immediato rapporto con Dio. E l’apostolo afferma anche altrove: “Noi siamo i collaboratori di Dio”. Ecco, proprio in questa lettera egli sottolinea con forza quanto realmente il suo messaggio è messaggio di Dio; egli sa che la predicazione del vangelo gli è stata affidata da Dio e che solo davanti a lui ne è responsabile; ebbene, chi come Paolo ha coscienza di essere assunto in tal modo al servizio di Dio, non può più considerare i propri collaboratori come persone a sé soggette”. Figlioli, qui si tratta, come dicevamo ieri mattina, di cambiare tono: bisogna elevarsi molto. È concessa anche la parte umana, ma è concessa se siamo su di tono, se consideriamo i collaboratori come collaboratori di Dio e perciò li trattiamo come si tratta una particola. Diceva San Giovanni Bosco che quando si tratta con un giovane bisogna fare come si fa con le particole: ci si lava prima, si prendono e dopo ci si purifica. Così anche con i collaboratori: si sta insieme, ma devi trattarli come collaboratori di Dio, non come servi tuoi. Come collaboratori di Dio! “Essi, come lavoratori nella stessa opera di Dio, vengono a trovarsi, senza pregiudizio di qualsiasi subordinazione giuridica, in un vicendevole rapporto di coordinazione”. Non si tratta di dire: “Io ho fatto quello che mi ha detto e sono a posto. Mi dica quello che devo fare!”. No, siamo tutti collaboratori di Dio. La subordinazione è a lui e con lui; dopo ci sarà un po’ di subordinazione umana, ma quella... Stiamo collaborando con Dio e questo lo capiscono tutti, i più vecchi e più giovani, e i nostri rapporti sono sempre rapporti con Dio presente. “E per ciò stesso, chi vede i suoi collaboratori come ‘ministri di Dio’, non può non considerarli ‘fratelli’”. Ecco un’altra cosa importantissima, per la quale ci vorrebbe un’altra meditazione ancora. Voi che andate al Chaco, don Pietro, don Graziano e gli altri , se è vero quello che abbiamo detto prima, dovete considerarvi realmente fratelli, perché se vi considerate fratelli, anche se vedete in uno qualche difetto, qualche mancanza, un fratello, un vero fratello, prende l’oro che c’è nel fratello e lascia stare la terra. Perciò bisogna consigliarsi insieme. Ecco il grande pericolo, figlioli! A parole diciamo: “Dobbiamo essere qua, dobbiamo essere là...”, e dopo, in pratica, capita che ci sia un tirannello, qualche superiore che diventa un po’ tirannello, che diventa tutto lui, tutto lui, e gli altri diventano servi. State attenti!CONGREGAZIONE collaboratori
COMUNITÀ
fraternità
COMUNITÀ
confratelli
MI159,11 [5-04-1967]
11 Ricordo ancora dai miei primi anni del seminario che si diceva così: “Per far star fermo un ragazzo che è indisciplinato fallo diventare prefetto”, e allora quello diventava il più buono di tutti perché faceva scattare gli altri più di tutti. I prefetti peggiori, da quel punto di vista, erano proprio quelli che prima erano i peggiori, perché c’erano solo loro. Mettevi uno di loro prefetto, e allora faceva scattare tutti, era il più energico. State attenti che proprio quelli che hanno le idee sociali più aperte e poco spirito religioso, sono quelli che dopo fanno i mosconi tiranni. Non mi riferisco alla nostra Famiglia perché non abbiamo ancora esperienza in materia, ma questo ve lo dico guardando il passato e osservando i parroci che quando erano ancora seminaristi, miei compagni e amici, io sentivo gridare in seminario contro i parroci: “Oh, il parroco dovrebbe essere un fratello col cappellano; dovrebbe essere qua, dovrebbe essere là...”, e se ci sono di quelli che dopo hanno fatto proprio i tiranni con i cappellani sono stati proprio quelli, quelli che, dopo, dicevano ai loro cappellani: “Il parroco sono io e tu fa’ così!”. I cappellani non sapevano niente, mentre sapevano tutto loro. State attenti, figlioli, perché con le parole si fa presto a fare democrazia, ma la democrazia vera presuppone una vita cristiana vissuta integralmente, una democrazia vera costa, costa tanto. Sarebbe più facile anche per me fare il piccolo duce; vi dico che sarebbe molto più facile. Si starebbe meglio dicendo: “Fate così, fate colà!”; ci sarebbero meno chiacchiere perché quando sentissi uno criticare potrei chiamarlo e dirgli: “Hai detto così e così dietro le spalle, è vero?”. “Sì!”. “Vergognati! Queste cose non si dicono!”. Dopo averglielo detto una o due volte, vedresti che gli passerebbe la voglia di criticare! E invece bisogna far finta di non saperlo, bisogna tacere e offrire al Signore, cercare di buttare una parolina durante una meditazione, ed eventualmente prenderlo dopo da una parte... La carità è carità! Non si può sempre dare martellate, perché se a un vetro storto tu dai una martellata, questo si rompe. Bisogna prima riscaldarlo... La martellata non si può dare sempre. Qualche volta ve l’ho data ‘opportune’ e qualche volta ‘importune’: quando ve l’ho data ‘opportune’ l’avevo chiesto al Signore, quando l’ho data ‘importune’ ho chiesto perdono al Signore. Meno chiacchiere, più amor di Dio, e più fatti! Ave Maria!AUTOBIOGRAFIA seminario
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superiore
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CARITÀ